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Valentina Zanatta

Il mandato d’arresto per Putin nella complessità del diritto internazionale

Aggiornamento: 28 mar 2023

Il 17 marzo è stato emesso un mandato di arresto internazionale per Vladimir Putin. Un report della Yale University ha potuto documentare la deportazione di 6mila bambini ucraini in 43 strutture rieducative russe e altre inchieste di Ong indipendenti hanno riportato di oltre 16.000 minori trasferiti in Russia di cui non si hanno più notizie.

Credo siano in molti ad essersi chiesti, almeno una volta dall’inizio del conflitto in Ucraina, come fosse possibile che un capo di Stato compisse certi crimini mentre il mondo intero stava a guardare senza fare nulla. Come fosse possibile che nel 2023, dopo tutti i progressi che ci sembrava di aver fatto in termini relazioni tra gli Stati, un Paese potesse invaderne militarmente un altro. Come fosse possibile che tra tutte le norme del diritto internazionale in vigore non ce ne fosse almeno una da far valere per condannare le atrocità che questa guerra porta con sé.


Finalmente, dopo un anno dall’inizio del conflitto, il primo provvedimento diretto è stato preso: la Corte Penale Internazionale ha emanato un mandato d’arresto per Putin e per Maria Lvova-Belova, commissaria per i diritti dei bambini presso il Cremlino, accusati di crimini di guerra per la deportazione di oltre 16mila bambini e adolescenti ucraini in campi di rieducazione in Russia.


Non è cosa da poco: è infatti solo il terzo mandato di arresto, nella storia del diritto internazionale, che viene emanato nei confronti di un Presidente in carica. I due precedenti erano stati emanati nei confronti di Gheddafi e dell’ex presidente del Sudan Omar Al Bashir.


Quali sono, nei fatti, le conseguenze?


Per alcuni il provvedimento ha solo valore simbolico, per altri ritarderà i negoziati di pace, per i più ottimisti sarà efficace in quanto isolerà ancora di più Putin dal resto della comunità internazionale e potrà spingere le élite russe a cambiare Presidente. Una cosa è certa: il provvedimento non comporterà necessariamente l’arresto.


Il diritto internazionale è infatti molto complesso. La Corte Penale Internazionale non ha giurisdizione universale, in quanto i suoi provvedimenti hanno efficacia solo negli Stati che sottoscrivono il suo Statuto.


Questo significa che il Capo del Cremlino potrebbe essere arrestato solo se si recasse in uno dei 123 Stati che hanno ratificato lo Statuto della Corte. Potrebbe, ad esempio, recarsi negli Stati Uniti o in Cina senza problemi.


Anche in Ucraina, per assurdo, il mandato d’arresto non avrebbe efficacia a meno che l’Ucraina, in quanto territorio aggredito, non decidesse di accettare la giurisdizione della Corte per i crimini che sono stati commessi sul suo territorio. L’arresto non sarebbe però scontato nemmeno se il leader del Cremlino si recasse in uno dei 123 Paesi aderenti.


Qualunque Stato potrebbe far valere il principio dell’immunità dei capi di Stato esteri, come è successo nel 2015 quando l’ex presidente sudanese si recò in Sudafrica. Alcune reazioni da parte della comunità internazionale danno dei segnali ben chiari.


L’Ungheria di Orban sarebbe uno di quei Paesi che non consegnerebbe Putin, secondo quanto avrebbe commentato oggi alla stampa il capo di gabinetto Gergely Gulyás. Il mandato di arresto, secondo il portavoce di Orban, sarebbe «infelice» perché ostacola ulteriormente la fine della guerra. Inoltre nonostante il governo ungherese abbia aderito alla Corte Penale Internazionale, spiega Gulyás, il trattato «non è stato ancora promulgato poiché contrario alla Costituzione».


Un portavoce interpellato dall’Ansa avrebbe però smentito quando detto dal portavoce di Budapest, precisando che l’Ungheria, avendo ratificato il trattato nel 2001, avrebbe l’obbligo di cooperare con la Corte nel quadro dello Statuto di Roma. Non manca il commento del portavoce di Pechino, Wang Wenbin, secondo cui il tribunale dell’Aja dovrebbe «sostenere una posizione obiettiva e imparziale e rispettare l’immunità dei capi di Stato dalla giurisdizione ai sensi del diritto internazionale».


A chi spetterebbe giudicare se non a un giudice parte di un organismo che è stato pensato e voluto dalla comunità internazionale per evitare il ripetersi delle atrocità compiute nel secolo scorso?


Le affermazioni dei portavoce di Ungheria e Cina fanno pensare. Chiariscono da una parte la posizione della Cina e evidenziano dall’altra le complessità di un diritto internazionale non universale.

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