Prima della guerra, Pavel Dorogoy, fotografo e documentarista ucraino, era specializzato in matrimoni e in fotografia architettonica.
Mai avrebbe immaginato di dover un giorno immortalare le macerie di quegli edifici che hanno segnato la storia del suo Paese.
Ai primi di marzo, Dorogoy ha intrapreso il suo viaggio sotterraneo nelle stazioni della periferia di Kharkiv. Non aveva con sé un Virgilio, ma solo una macchina fotografica al collo.
Nella città ucraina, l’universo dantesco si è ribaltato: dall’inferno si fugge sotto terra.
Nelle stazioni della metropolitana, nonostante una temperatura attorno ai 15 gradi Celsius, arrivano folate di vento da girone dei lussuriosi. Per questo i cancelli ermetici di notte rimangono chiusi.
Da quando, alle 2.00 del pomeriggio del primo giorno di guerra, la metro ha smesso di funzionare, qui il tempo si è fermato.
Le luci, sempre accese, disturbano l’alternanza sonno veglia.
Un caleidoscopio di rumori metallici e ovattati, evocati solo visivamente, eppure così vividamente, dagli scatti di Dorogoy, suona come il concerto di un gruppo psichedelico sperimentale.
In quest’atmosfera edenica, la vita si prende una rivincita sulla mera sopravvivenza.
Tra pile, tende e sedie da regista, una ragazza con la camicia a scacchi volteggia con un nastro da ginnasta. Un anziano si immerge nella lettura di un libro con l’aiuto di una lente. Qualcun altro, sotto una coperta, scorre il dito sullo schermo di un tablet.
In questa parte segreta della città, prendersi cura degli altri è facile. Alcuni volontari servono i pasti, altri preparano il porridge, psicologi e insegnanti forniscono ogni giorno assistenza ai bambini.
Nel 1992, in Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, l’antropologo Marc Augè collocò stazioni e aeroporti nella categoria dei non-luoghi, spazi di transito dove le interazioni sono degli incidenti preferibilmente evitabili.
Proprio qui, in tempo di guerra, si sta risvegliando invece un nuovo senso identitario di comunità.
Laddove era possibile a malapena sfiorarsi, di solito durante uno scippo maldestro o per superare la coda al check-in, si riscopre il piacere di guardarsi negli occhi, giocare, condividere paure e speranze.
A rendere viva la polis, come ricorda Hannah Arendt in Vita Activa, è l’associazione tra le persone, indipendentemente dal luogo fisico in cui si trovano.
E a Kharkiv la polis è rinata, più unita che mai, sotto le macerie.
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