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Anna Mosetti

La serializzazione giapponese


Vi è mai capitato di entrare in libreria e soffermarvi nella zona fumetti? Avrete sicuramente notato la comparsa di tanti piccoli volumi dal formato bizzarro, che da un po’ di tempo stanno popolando gli scaffali. L’invasione graduale dei manga nelle nostre librerie sta prendendo sempre più piede, ma non è che una minima parte, una difficile selezione tra le centinaia di titoli più famosi che il Giappone sforna attraverso un processo chiamato ‘serializzazione’.


Il manga infatti non nasce tankōbon (trad. volumetto), ma in riviste contenitori pubblicate settimanalmente o mensilmente dalle case editrici; ognuna punta a un target e a un genere diverso. Queste riviste contengono capitoli di diverse storie. L’ordine in cui sono disposti questi capitoli non è affatto casuale: viene influenzato dal gradimento dei lettori, registrato attraverso dei sondaggi.


La celebre frase “il cliente ha sempre ragione” in questo caso è assoluta.


Infatti sono i lettori, tramite i sopracitati sondaggi settimanali proposti dalle riviste, a decidere quali serie mandare avanti oppure no. Se i capitoli di una determinata storia compaiono in fondo alla classifica per diverso tempo, la casa editrice prenderà certamente in considerazione l’idea d’interrompere la serie. Quando invece una serie si mantiene in cima alla classifica i capitoli che la compongono verranno presto raccolti in volumetti e venduti separatamente.


La storia creata è soggetta a continui cambiamenti e per soddisfare il pubblico la creatività dell’autore viene messa da parte. Possono essere necessarie variazioni a livello di personaggi, ambientazione, in alcuni casi, interi sviluppi. La figura dell’editor in questi casi sovrasta il mangaka (trad. fumettista) e decide per lui, a meno che quest’ultimo non sia abbastanza famoso.

Rendiamo meglio l’idea specificando bene che lavoro fa il mangaka. Prima di tutto deve possedere una storia che può essere inventata da lui stesso o da un collega scrittore; in seguito la sceneggiatura scritta verrà ricreata sotto forma di sceneggiatura disegnata dove si sceglie l’impaginatura delle vignette.


Dopo questa fase di preparazione si comincia a lavorare sulle tavole, seguendo tre precisi step: disegno, inchiostrazione e retinatura; il primo e secondo step parlano praticamente da soli mentre il terzo step è piuttosto inusuale per noi pubblico occidentale più abituato ai fumetti colorati. La retinatura serve per dare “colore” alla tavola: i materiali usati sono i retini, fogli adesivi stampati con diversi pattern in nero o gradazioni di grigio, che vengono ritagliati a mano e in seguito attaccati alla tavola. Possono servire per dare profondità, colorare la pelle o un vestito di un personaggio, o come un possibile effetto di scena. La scelta dell’usare o meno i retini ricade sul mangaka, ci sono autori che ne usano molti e riescono ad equilibrare bene i grigi con i neri dell’inchiostrazione, altri che ne fanno volentieri a meno.

Ultimamente molti mangaka sono passati al lavoro digitale, preferendolo al tradizionale per essere più economico e rapido nelle consegne. In entrambi i casi, il processo di finalizzazione di una tavola può prendere dalle 3 alle 6 ore.

Fotografia e illustrazioni di Anna Mosetti

Per i mangaka in erba è quindi piuttosto difficile pensare di riuscire a cambiare il corso della loro storia e allo stesso tempo stare al passo con le scadenze. I ritmi di lavoro prevedono fino a 20 tavole settimanali e circa 60 mensili a seconda della tipologia di rivista.


E i famosi assistenti, beati aiutanti, che tanto di frequente vengono ringraziati nei manga dagli autori? Vengono appunto pagati interamente dai mangaka. Ecco perché, se il fumettista non ha abbastanza soldi per poter assumere qualcuno, si deve arrangiare con i propri mezzi, probabilmente passando innumerevoli notti insonni a disegnare, inchiostrare e retinare.


Cosa spinge dunque una persona a decidere che il mangaka è il lavoro della sua vita, già sapendo di andare incontro ad un percorso stressante e al limite dello sfruttamento? La risposta è semplice quanto incomprensibile: la passione per il disegno e la voglia di raccontare storie.


Incomprensibile solo dal nostro punto di vista occidentale.


Il Giappone è sempre stato famoso per gli orari assurdi a cui sono sottoposti i propri lavoratori, basti citare il fenomeno dei tanti impiegati sfiniti che si addormentano per le strade di Tokio alla fine di una estenuante settimana di lavoro - si parla di 60 e più ore lavorative settimanali!


In fin dei conti la scelta è alquanto indifferente a livello di stress lavorativo: se da una parte ci si strugge tra scadenze e classifiche, dall’altra ci sono un orario inumano e dormite in posti insoliti.

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