Perché i prezzi salgono e le merci scarseggiano? Le attuali difficoltà del commercio mondiale sono molte crisi in una.
A New York alcune importanti catene di farmacie si sono ritrovate a corto di prodotti. Il porto di Los Angeles, che assieme al vicino porto di Long Beach contribuisce a smaltire circa il 40% dei container che raggiungono gli Stati Uniti, non riesce a processare l’enorme quantità di merci trasportate dalle navi cargo, ingolfando l’intera distribuzione. Il Regno Unito ha sofferto e sta ancora soffrendo una grave carenza di carburante, dovuta anche alla scarsità di autotrasportatori. Nell’Unione Europea, come sappiamo, il costo dell’energia (quindi anche delle bollette di luce e gas) è recentemente aumentato, e non di poco.
Per di più, nonostante le grandissime quantità di container in giro per il mondo, si fatica a trovarne di vuoti per mettere in circolo le merci. Difatti, stiamo assistendo a una riduzione dei prodotti disponibili sugli scaffali dei negozi. Per questo, i prezzi si stanno alzando un po’ ovunque, a causa dell’inflazione. Cosa sta succedendo?
In breve, la domanda di beni si è impennata improvvisamente (dopo i rallentamenti dovuti alla pandemia) e l’offerta non riesce a stare al passo. La produzione arranca (mancano manodopera e fonti di energia) e il sistema dei trasporti non riesce a smaltire tutto quello che viene prodotto. Meno prodotti raggiungono il commercio al dettaglio, e quelli che vi riescono hanno di conseguenza un costo maggiorato. In tutto questo hanno avuto e hanno un ruolo la pandemia da coronavirus, le scelte commerciali delle singole aziende, le politiche economiche dei governi, le manovre monetarie delle banche centrali e, infine, anche alcuni disastri naturali. Ma cominciamo dall’inizio.
A marzo e aprile 2020, quando un po’ tutto il mondo finiva in lockdown, molti settori economici hanno subito un brusco quanto prevedibile stallo (si pensi alla ristorazione e al turismo). Furono inoltre molti i centri di produzione costretti a chiudere a causa sia delle politiche sanitarie adottate dai vari governi, sia della diffusione del contagio da coronavirus.
In questo contesto, molte delle aziende che si occupano di trasporti, prevedendo un drastico calo della domanda, della produzione e di conseguenza delle spedizioni, decisero di rallentare il ritmo di lavoro. Diminuirono così il numero dei viaggi e ne approfittarono per ristrutturare i loro mezzi (le navi cargo), di fatto riducendo la capacità di distribuzione del commercio mondiale. Purtroppo, le previsioni si rivelarono sbagliate. Infatti, la domanda mondiale non si distrusse completamente, ma si rivolse in parte ad altro.
“Costrette a casa dalle restrizioni provocate dalla pandemia, le persone cominciarono a comprare computer, stampanti e monitor per poter lavorare da casa, mobili per organizzare uffici domestici, TV, console e videogiochi per passare il tempo, elettrodomestici e accessori per cucinare in casa, tra le altre cose”, scrive Eugenio Cau su ilpost.it.
Computer, smartphone, elettrodomestici e televisori hanno tutti bisogno della tecnologia dei microchip per poter funzionare. Nacque in questo modo la prima delle crisi che colpiscono il commercio internazionale: la cosiddetta crisi dei microchip. La produzione di microchip per il mercato mondiale è oggi concentrata quasi interamente in Corea del Sud e Taiwan. Questo fatto si è rivelato un elemento di particolare debolezza, visto che all’aumento della domanda corrispondeva una carenza della logistica (dovuta anche alle restrizioni per la pandemia). Per di più, il settore dei microchip è ad alto contenuto tecnologico e necessita, oltre che di manodopera qualificata, anche di ingenti investimenti. Non è dunque possibile aumentare la produzione con scarso preavviso. Ciò ha provocato sin da subito rallentamenti nella filiera. Come se non bastasse, recentemente Taiwan è stata colpita da alcuni disastri naturali, aumentando i disagi nel settore.
Quando poi le varie misure restrittive adottate a inizio pandemia sono state via via allentate, a partire soprattutto dalla scorsa primavera, la domanda dei consumatori, finalmente “liberata”, si è rivolta nuovamente ad alcuni settori in precedenza trascurati (come quello delle automobili, ad esempio). Inoltre, le persone erano ora più propense a spendere di quanto non lo fossero prima, grazie al risparmio accumulato nei mesi di lockdown. Infatti, secondo alcune stime di Moody’s Analytics, nel corso della pandemia i consumatori di tutto il mondo hanno accumulato 5.400 miliardi di dollari in più rispetto alle medie degli anni precedenti.
Ciò è avvenuto perché, a causa delle restrizioni dovute alla pandemia, la maggior parte delle persone ha avuto in generale meno occasioni per spendere i propri soldi. In aggiunta a questo fattore però, ce n’è almeno un altro: i generosi sussidi e benefit che i governi mondiali hanno concesso a molti dei loro cittadini, giustificati dalle difficoltà economiche cui gran parte della popolazione è andata incontro a causa delle restrizioni sanitarie, hanno contribuito ad aumentare la capacità di spesa dei consumatori.
Tutto questo si è tradotto in un aumento vertiginoso degli ordini, che ha colto impreparati sia il sistema produttivo, sia quello dei trasporti. Il commercio mondiale odierno lavora a un altissimo grado di precisione: d’altronde la filiera è assai lunga, globalizzata e intricata.
“Per assemblare un computer portatile in Cina, per esempio, è necessario fare arrivare microchip da Taiwan, uno schermo LED dalla Corea del Sud, componenti chimici dall’Europa e parti elettroniche da varie altre regioni del mondo. Questo modello produttivo è basato su una programmazione dettagliata e di lungo periodo, ed è poco flessibile: se soltanto uno dei fornitori è in ritardo, tutta la produzione è costretta a fermarsi”, scrive sempre Eugenio Cau su ilpost.it.
“Abbiamo passato decenni a migliorare la catena di approvvigionamento (supply chain in inglese) per trasportare una specifica quantità di merci in uno specifico periodo dell’anno attraverso uno specifico sistema […] appena abbiamo superato le capacità per le quali ci siamo preparati, il sistema si è rotto”. Afferma Nathan Strang, esperto di logistica e commercio marittimo (circa l’80% delle merci mondiali è trasportato via mare), interpellato da Slate magazine.
Questa situazione ha esasperato i problemi che già da tempo affliggevano il settore dei trasporti. Negli anni immediatamente precedenti alla pandemia infatti avevano cominciato a manifestarsi scarsità di container con i quali spedire le merci e carenza di manodopera (sia di trasportatori, sia di lavoratori nei porti). Con l’incremento degli ordini e della domanda (pare che vi siano oggi molte più merci che raggiungono i porti statunitensi di quante ve ne fossero nel 2019), il sistema è andato in crisi.
Fiutando il pericolo di rimanere a corto di materie prime, molti produttori hanno cominciato ad aumentare gli ordini ai fornitori, contribuendo così ad aggravare la situazione. Per di più, come se non bastasse, alcuni incidenti e catastrofi naturali hanno fatto alzare il prezzo delle materie prime in tutto il mondo, riducendone inoltre la disponibilità per alcuni periodi. Si va dalla siccità in Brasile (che ha colpito duramente i raccolti) al freddo che a febbraio ha messo in serie difficoltà le industrie del petrolchimico statunitensi, sino all’ormai noto incidente del canale di Suez, che da solo ha generato ritardi di diversi mesi nei trasporti. L’incremento dei prezzi delle materie prime (petrolio, rame, acciaio, legname) si è ovviamente scaricato sui semilavorati (benzina e plastica, ad esempio).
A questo punto, non risulta difficile comprendere come mai sugli scaffali dei negozi di tutto il mondo cominci ad avvertirsi una certa scarsità di prodotti, e i prezzi in generale stiano cominciando a lievitare. Qui però si aggiunge un ultimo tassello: le politiche monetarie adottate dalle banche centrali di tutto il mondo da inizio pandemia.
Per sostenere le economie nazionali prostrate da mesi di lockdown e restrizioni, la BCE, la FED e le altre grandi banche mondiali hanno deciso di immettere maggiore liquidità nel mercato, mediante l’acquisto di titoli di Stato. Quest’enorme immissione di liquidità rischia di fungere da acceleratore dell’inflazione, che da qualche mese ha ripreso a salire un po’ ovunque (nella zona euro, per fare un esempio, tra dicembre 2020 e gennaio 2021 è passata da -0,3 a 0,9%: l’incremento più alto dell’ultimo decennio).
Non è chiaro al momento se le difficoltà del commercio mondiale siano da considerarsi temporanee, o se potrebbero invece acuirsi ulteriormente. Secondo alcuni operatori del settore della logistica la situazione potrebbe tornare alla “normalità” già nel 2022 o al più tardi nel 2023, mentre alcuni osservatori avvertono che non è del tutto sicuro che questi “squilibri” del sistema saranno transitori. Ad ogni modo, nel breve termine la situazione attuale presenta qualche rischio per la ripresa economica post-restrizioni. Natale, che solitamente funge da volano per le economie, è alle porte.
Visto però lo stato in cui versa attualmente il commercio mondiale, quest’anno il periodo natalizio potrebbe essere meno redditizio del solito (non considerando il 2020). Secondo l’economista John Cochrane, “ora offerta ed efficienza devono essere in cima alla lista delle nostre priorità economiche”.
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