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  • Redazione Into it

Media Contest 2021: ecco i vincitori

Nella splendida cornice del Teatro Zandonai di Rovereto si è svolta la premiazione del Media Contest. Gli iscritti sono stati chiamati a sviluppare un articolo, video o podcast sulle seguenti tracce:

  1. Next Generation EU. Impatto reale sulle generazioni future.

  2. Politica, Cultura, Economia in cerca di competenze. La questione irrisolta delle quote rosa.

  3. Israele e Palestina. Indagare la verità dell'altro.​

Primo premio contratto freelance di un anno con il media partner il Dolomiti, iPad, libro tematico e Attestato di partecipazione. Secondo e terzo posto iPad, libro e Attestato. Quarto, quinto e sesto posto tablet, libro e Attestato. Per tutti gli ammessi al Contest non vincitori libro e Attestato di partecipazione.


Politica, Cultura, Economia in cerca di competenze. La questione irrisolta delle quote rosa. (Francesca Cristoforetti)


Israele e Palestina. Indagare la verità dell'altro. (Chiara Zannelli)


Israele e Palestina. Indagare la verità dell'altro. (Sabina Villani)


Politica, Cultura, Economia in cerca di competenze. (Giuditta Lorenzini)


Prima che l’uomo cominciasse a conquistare le vette, furono le vette a conquistare l’uomo. L’uomo salì prima sulle montagne, poi divenne alpinista. La donna salì anche lei sulle montagne e divenne poi, alpinista donna. La donna non è ancora diventata alpinista e basta.


La nascita dell’alpinismo coincide con la prima ascensione del Monte Bianco da parte del cercatore di cristalli Jacques Balmat e del medico Michel Gabriel Paccard, nel 1786. Da quel momento vennero conquistate tutte le vette principali delle Alpi, fino all’ultima, quella del Cervino, raggiunta nel 1865 da Edward Whymper e Michel Croz. Il Monte Bianco fu anche lo scenario delle prime salite alpinistiche al femminile: la prima, nel 1808, da parte di Marie Paradis, cameriera di Chamonix e la seconda, compiuta nel 1838 dalla francese Henriette d’Angeville che venne derisa e sbeffeggiata da giornali e alpinisti, i quali l’accusarono persino di aver ridotto il Monte Bianco a una cima da signore. Cominciò a scalfire la convinzione che mai e poi mai le donne, “per ovvi motivi fisici e mentali”, sarebbero riuscite a salire sopra certe quote, Lucy Walker, considerata la prima vera alpinista donna per aver collezionato nel corso della sua carriera un centinaio di scalate, fra queste quella del Cervino, nel 1871.


Se a scrivere la storia meravigliosa e tetra dell’alpinismo furono in prevalenza uomini, le donne l’arricchirono di imprese durante le quali non solo sfidarono l’imprevedibile ambiente alpino, ma anche i pregiudizi connessi al sessismo e al paternalismo dell’epoca. Queste donne contribuirono a scrivere la storia dell’alpinismo e al contempo quella della loro emancipazione: Annie Smith Steck, docente universitaria di lingue classiche, fu la prima donna a indossare dei pantaloni durante una delle sue imprese, quella del 1895 sul Monte Cervino; Junko Tabei, prima donna a scalare l’Everest nel 1975, fondò il primo club di alpinismo per sole donne in Giappone, mentre l’inglese Alison Jane Hargreaves, tra le sue numerose ascese, scalò la parete nord dell’Eiger, in Svizzera, incinta del suo primo figlio – che diventerà in seguito il famoso alpinista Tom Ballard, morto sul Nanga Parbat nel 2019.


Da allora, molte convinzioni legate al ruolo sociale della donna sono evidentemente cambiate così come quelle relative al suo potenziale fisico e mentale. Il numero di alpiniste è aumentato in modo significativo negli ultimi anni e così l’interesse nei confronti dell’attività alpinistica al femminile che sfiora spesso un’(auto)esaltazione delle stesse. Questo aspetto riflette la tendenza attuale a mettere in risalto proprio le figure femminili impegnate in attività professionali, culturali e sportive un tempo riservate esclusivamente all’uomo o in cui la donna veniva scarsamente valorizzata. Se ciò contribuisce a contrastare il sessismo e a favorire la neutralità di genere nell’attività alpinistica, mette però in secondo piano il gender gap che si verifica nelle professioni legate alla montagna, in particolare quella di guida alpina.


L’aumento della presenza femminile nelle attività montane viene evidenziato dal CAI (Club Alpino Italiano) che oggi conta una percentuale di donne del 37% tra i suoi iscritti. In territorio trentino, tale aumento viene registrato anche dalla SAT (Società Alpinisti Tridentini) la quale riferisce che dal 2000 c’è stata un’impennata di adesioni da parte di donne, le quali rappresentano oggi il 40% dei “satini”. A fronte di tale aumento, entrambi gli enti si impegnano ormai regolarmente a proporre approfondimenti e variazioni sul tema del ruolo della donna in montagna e, sui canali social legati a gruppi di alpiniste o di appassionate di montagna, la questione è sempre più discussa.


Questi dati sono però poco indicativi della quantità di donne impegnate in attività professionali in montagna, quali istruttrici d’arrampicata, di scialpinismo e guide alpine. Secondo le stime del CAI, infatti, le donne rappresentano solo il 16,5% degli istruttori sezionali, cioè di coloro che non sono ancora titolati, e le percentuali più elevate si registrano per le discipline ritenute meno rischiose, quali l’arrampicata libera e lo scialpinismo. Dei 1364 istruttori regionali e nazionali di alpinismo, le donne rappresentano solo il 3,6% e, stando ai dati del Collegio Nazionale delle Guide Alpine, sui 1416 professionisti tra guide alpine, guide emerite e aspiranti guide alpine, le presenze femminili sono 20. Insomma, se l’interesse della donna verso le attività sportive legate alla montagna è in progressivo aumento, la sua affermazione in qualità di professionista resta molto limitato.


​Tale fenomeno sembra essere strettamente connesso all’idea di forza, sicurezza e responsabilità e quindi di virilità tradizionalmente associata alla figura dell’alpinista. Ma queste caratteristiche appartengono davvero in misura maggiore all’uomo e soprattutto, che peso hanno realmente nell’attività alpinistica e nel ruolo professionale di guida alpina?


​Molti studi tendono a dimostrare che non ci sono differenze sostanziali tra maschi e femmine, ma che è il contesto socioculturale a definirle in uno scambio continuo con l’insieme biologico. In altre parole, il potere dell’esposizione agli stereotipi di genere può portare a convincersi della realtà dello stereotipo e quindi a confermarlo. Paradossalmente però, una delle cause dello scarso numero di donne tra le guide alpine in Italia, e così negli altri stati dell’arco alpino, è costituita dal tipo di prove d’accesso alla professione dove uomini e donne vengono valutati secondo gli stessi parametri.


Ora, se è vero che le competenze sul campo devono essere le stesse, in nessuna disciplina sportiva le due categorie competono insieme e nemmeno nelle prove pratiche dei concorsi delle Forze Armate, poiché le qualità fisiche e prestative dei due sessi sono oggettivamente differenti. Ciò testimonia la disuguaglianza di diritti nell’acquisizione di competenze, legata essenzialmente a un retaggio culturale che ha fatto sì che la forza venisse considerata come la qualità fisica più importante per accedere all’attività alpinistica.


L’entrata delle donne nella professione della guida alpina e la crescente diffusione di strutture formative e gruppi di alpinismo al femminile sta però mettendo in discussione la preminenza della forza fisica e dimostrando che altri mezzi possono essere adoperati per raggiungere le stesse competenze. Il genere porta con sé delle differenze d’approccio all’alpinismo, come alla più parte delle attività umane, che la retorica sulla parità di genere tende a eludere piuttosto che a valorizzare. La differenza di genere c’è e va valorizzata in quanto tale perché è proprio dal riconoscimento della diversità che si potrà cominciare a parlare di parità di diritti.


Next Generation EU. Impatto reale sulle generazioni future. (Marzio Fait)


Next Generation EU. Impatto reale sulle generazioni future. (Francesco Cestari)


Il piano di investimenti europeo – anche noto come Next Generation EU – finalizzato a rilanciare le economie degli stati membri dopo la pandemia, punta lo sguardo sulle prossime generazioni. La capacità di spesa che ne deriva per i Paesi beneficiari è ingente, ma la vera differenza la faranno le modalità con le quali tali somme verranno impiegate. Un aiuto in tal senso può venire dalla finanza sostenibile, strumento utile per assicurarsi il raggiungimento dei risultati prefissati.

La differenza tra un politico mediocre e un grande statista, si dice stare nell’orizzonte temporale con cui guardano alla società. Il primo punta alle prossime elezioni, il secondo adotta una visione di lungo termine. A livello europeo, se si guarda ai criteri che hanno ispirato la stesura del Recovery Plan, all’interno del quale si innesta il programma Next Generation EU (NGEU), sembra emergere il secondo ritratto. La visione predominante è quella di ampio respiro e gli obiettivi, come fa trasparire il nome del programma, sono fissati sulle generazioni future.

IL PIANO DI INVESTIMENTI EU DA 750 MILIARDI

Era dai tempi del secondo dopoguerra, con il Piano Marshall, che non si vedevano investimenti così ingenti confluire nelle casse delle singole economie europee. Next Generation EU, che opera all’interno della cornice del Quadro Finanziario Pluriennale europeo (QFP 2021-2027), metterà in campo interventi per un totale di 750 miliardi di euro. Di questi, ai quali si va ad aggiungere il contributo del Fondo Complementare, circa 200 miliardi saranno destinati all’Italia. I vari Paesi europei potranno beneficiare di tali fondi a patto di implementare una serie di azioni concordate con la Commissione Europea.

A livello italiano, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), attraverso il quale vengono definite le modalità di impiego dei fondi europei, segue le indicazioni di Bruxelles. La stessa Presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen, durante il discorso di consegna dei fondi tenutosi a Roma, loda gli sforzi italiani nell’allinearsi ai requisiti previsti per ricevere i finanziamenti comunitari. L’impianto delle politiche adottate ruota attorno a tre assi strategici: digitalizzazione e innovazione, transizione ecologica, e inclusione sociale. Le premesse sono buone, c’è un allineamento tra disponibilità

finanziaria e volontà politica. La partita però è ancora tutta da giocarsi, in quanto il raggiungimento dei risultati sperati dipenderà esclusivamente da come i fondi verranno impiegati e quali progetti saranno finanziati. Sovvenzioni così importanti, spesso rischiano di dar vita a cattedrali nel deserto, e un chiaro esempio per il Belpaese viene proprio dal Piano Marshall. Sarà necessario non ripetere questo errore, anche perché all’orizzonte non si intravede un boom economico pronto a compensare eventuali sprechi di risorse pubbliche.

LA FINANZA SOSTENIBILE COME DRIVER DEL CAMBIAMENTO

La forza del programma di rilancio dell’UE risiede nella complementarietà con le altre politiche comunitarie. Una tra tutte, il Green New Deal, con cui vengono indicati alcuni strumenti grazie ai quali sì potrà trovare la giusta spinta per il raggiungimento dei risultati sperati.

In un contesto di risorse scarse e bassi rendimenti, come quello del panorama economico europeo, la capacità di canalizzare i denari pubblici e quelli degli investitori privati verso attività meritorie e sostenibili nel lungo periodo risulta fondamentale. Questa semplice attenzione, se riposta e strutturata secondo dei canoni che siano scientifici, rigorosi, e trasparenti, avrà un chiaro impatto reale sugli europei di domani, e non solo.

Gli strumenti per farlo ci sono e sono quelli della finanza sostenibile, applicabili a progetti di varia natura. La proposta è semplice: vagliare i progetti che riceveranno i fondi del NGEU attraverso nuovi criteri di valutazione come la misurabilità dell’impatto previsto. Per fare questo basterà applicare la nuova tassonomia europea per le attività sostenibili (New EU Taxonomy) entrata in vigore nel luglio 2020. Tale classificazione punta a definire il livello di sostenibilità delle varie attività economiche considerate. In questo modo, si potranno coprire diversi aspetti legati alla sostenibilità intesa come gestione positiva delle risorse e degli impatti nel lungo termine.

Il territorio della finanza sostenibile, che opera attraverso valutazioni di tipo ESG (Environmental Social and Governance), cioè che includono criteri legati ad ambiente società e gestione, e ancor di più quello della misurazione d’impatto restano ancora inesplorati. Essi rappresentano nuovi ambiti attorno ai quali risulta sempre più necessario sviluppare un discorso ecosistemico. Se si guarda all’allocazione delle risorse destinate all’Italia, organizzate secondo sei missioni, la maggior parte degli ambiti è di per sé misurabile attraverso approssimazioni e metriche che permettono di stimare un impatto tangibile e concreto. Fa eccezione probabilmente solo la quinta missione dedicata all’inclusione e coesione.

Ultimo ma non meno importante, il fatto che le risorse del piano europeo non sono distribuite in una tranche unica. Al contrario, i Paesi destinatari del programma europeo riceveranno le somme secondo un piano di distribuzione che dipende del raggiungimento degli obiettivi preposti.

È in tal senso che la finanza sostenibile, con la sua anima incentrata sulla misurabilità degli impatti, offre una duplice opportunità. Da un lato, garantire che i progetti abbiano un reale impatto nel lungo termine, dall’altro, che vengano rispettati gli impegni con Bruxelles, assicurandosi così l’intero pacchetto di sovvenzioni. Le premesse per garantire un futuro all’Europa di domani ci sono, resta ora aperto l’interrogativo se la nostra classe politica sarà all’altezza della sfida.

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