Dal greco εὖ 'bene' e dal tema di ϑάνατος 'morte'. Per i filosofi inguaribili una morte tranquilla, naturale, il compimento di quel cerchio perfetto che è la vita. Per gli animi più scientifici e pragmatici, che sia attiva o passiva (quindi per azione o astensione al somministrare una terapia farmacologica), l’eutanasia è "procuramento anticipato della morte di un malato, allo scopo di alleviarne le sofferenze".
Il motivo di tante controversie al riguardo è una casistica particolarmente varia.
L’eutanasia che sicuramente tutti conosciamo è quella che si applica ai pazienti terminali, coloro che sono affetti da patologie progredite talmente da avere una prognosi a breve e medio termine.
Prendiamo ad esempio Mario (nome fittizio, per questioni di riservatezza), il primo caso di approvato suicidio assistito in Italia. Nel 2010 Mario è coinvolto in un incidente stradale, che lo lascia con gravi patologie, tra cui una tetraplegia.
Nel 2020 fa domanda alla propria Asl per usufruire del suicidio assistito; ci vorranno ben due dinieghi e un anno e mezzo prima che, il 16 giugno 2022, Mario possa finalmente spegnersi.
Nella sentenza 242/19 che il Tribunale emana al riguardo, si ritiene che Mario, pur essendo in possesso dei requisiti necessari, non è in diritto di ricevere assistenza medica nel porre fine alla propria vita; sarebbe infatti difficile assolvere l’equipe medica dalla punibilità del servizio dispensato.
È l’influenza di una religione che ritiene la vita data da Dio un dono innappellabile e intoccabile? O è forse la negligenza di uno Stato che ignora deliberatamente ciò che gli è sconveniente?
Mi sorprendo dunque che Mario sia riuscito ad ottenere il travagliato primato sopra menzionato. Ma passiamo a una questione ancora più spinosa.
Nel 2021 lo Stato del Canada dichiara che dal 17 marzo 2024 l’eutanasia sarà un’opzione anche per pazienti affetti da disagi psichici gravi, quali depressione e disturbi di personalità farmaco-resistenti. Che salto di civiltà, vero?
Se pensavate che le controversie legate ai casi di suicidio assistito legati a casi clinici puramente fisiologici fossero anche troppe, ho brutte notizie per voi.
L’alterazione delle facoltà psichiche è infatti ciò che caratterizza i disturbi mentali; sconveniente, considerato che l’eutanasia si effettua su richiesta volontaria, e viene approvata solo a soggetti pienamente consapevoli e nel pieno della loro capacità di intendere e di volere.
In cosa consiste dunque la differenza tra un suicidio assistito, ed un suicidio da intendere come sintomo finale di una malattia debilitante quanto una fisica? Non solo: com’è possibile valutare se la richiesta di eutanasia sporta da un malato terminale non venga da un’alterazione delle facoltà psichiche, causata dal dolore di una patologia puramente fisica?
Se vi aspettavate una risposta, mi duole deludervi; non c’è nessuno Stato che ne abbia trovata una ad oggi, sicuramente non la trovo io.
Posso però imbastire una riflessione riguardante il caro vecchio libero arbitrio. L’eutanasia si rende, per le istituzioni, una misura necessaria; uno Stato che vuole annichilire il più possibile l’infelicità del proprio popolo deve tutelare coloro che non hanno possibilità di realizzarsi pienamente.
Perché, parliamoci chiaro: pensate davvero che chi vuole porre fine alla propria vita non possa farlo se non assistito da un sistema che spesso e volentieri fallisce nei propri compiti?
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