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Diego Gasperotti

Alle origini del conflitto israelo-palestinese

Palestinesi e israeliani si combattono a più riprese da oramai 70 anni. La storiografia fa risalire per larga parte le cause del loro interminabile scontro al periodo della dominazione inglese in Palestina.

La guerra arabo-israeliana del 1948, quella che portò alla nascita dello stato di Israele, è spesso indicata come l’inizio del conflitto che coinvolge palestinesi e israeliani. Le tensioni che trovarono sfogo nella guerra erano però un lascito del periodo precedente.


Il Mandato inglese in Palestina

Alla fine della Prima guerra mondiale, il Regno Unito aveva conquistato tutti i territori oggi divisi tra Israele e Autorità Nazionale Palestinese. Ritenendo che potesse risultare di importanza strategica per i propri interessi nazionali, il governo britannico ottenne dalle altre potenze il riconoscimento del controllo che esercitava sull’area (Conferenza di Sanremo, 1920).


Ufficialmente, il Regno Unito doveva rispondere della propria amministrazione locale alla Società delle Nazioni, che gli affidava la Palestina affinché la governasse negli interessi della popolazione locale, la quale doveva essere condotta al benessere e resa in grado di autogovernarsi. Si riteneva infatti che ciò potesse avvenire solo grazie all’intervento benefico di una potenza occidentale. Nel frattempo però gli inglesi, attraverso il Segretario degli Affari Esteri Arthur James Balfour, si erano mostrati favorevoli all’immigrazione ebraica nell’area (Dichiarazione Balfour, 1917).


Da almeno qualche decennio, l’immigrazione in Palestina era sostenuta e fomentata da parte delle associazioni sioniste, che la ritenevano necessaria per salvaguardare gli ebrei dalle fortissime discriminazioni che subivano da secoli in Europa. A Londra, tra le altre cose, si credeva che un rafforzamento della presenza ebraica in Palestina avrebbe agevolato lo sviluppo economico locale.


Tutto ciò portò alla rabbia dei palestinesi, i quali, oltre a mal sopportare l’immigrazione ebraica, si sentivano traditi poiché non era stato garantito loro uno Stato indipendente, come ritenevano fosse stato promesso loro dai britannici.


Da quest’ingarbugliato intreccio nacquero numerose tensioni, che portarono infine al fallimento dell’amministrazione inglese. Ancora oggi, alcune delle questioni emerse in quei frangenti ostacolano il processo di pace.

La questione della terra e l’insediamento dei coloni

Come è noto, agli ebrei in Europa (ma non solo) furono per larga parte della storia preclusi alcuni diritti. In particolare, essi non potevano divenire proprietari terrieri. Questo fatto portò il sionismo a idealizzare il rapporto con la terra. Perciò gli immigrati ebrei in Palestina puntarono molto sull’acquisto e l’occupazione di porzioni di terreno sempre più ampie: un processo che durante l’amministrazione inglese raggiunse il suo apice.


Inevitabilmente, questo fu uno dei primi motivi di attrito fra palestinesi ed ebrei. Infatti, la maggior parte della popolazione araba palestinese viveva nelle campagne. Si trattava dei cosiddetti fellahin, che lavoravano la terra sulla quale risiedevano. Essi non erano però proprietari di quegli appezzamenti.


Accadeva dunque che quando i sionisti si presentavano con offerte che spesso eccedevano il valore di mercato, i fondi venissero ceduti senza troppi problemi.


Entrati in possesso delle tenute, i sionisti sfrattavano i fellahin. Quest’ultimi si trovavano quindi privati della loro unica fonte di sostentamento e costretti a spostarsi nelle città vicine, dove divenivano forza lavoro non specializzata.


Mentre il terrore di vedersi sfrattati dai sionisti si diffondeva piano piano in tutta la popolazione araba palestinese, i coloni ebrei utilizzavano i terreni così acquisiti per impiantarvi delle industrie agricole, per costruirvi veri e propri insediamenti o, più raramente, per l’autosostentamento (come avveniva nei kibbutz per esempio).


Ancora oggi i cosiddetti coloni esercitano un ruolo non trascurabile nel conflitto israelo-palestinese. Dopo la Guerra dei sei giorni (1967) gli insediamenti hanno avuto un nuovo stimolo, supportati dal governo israeliano. Da allora però la colonizzazione è avvenuta a spese delle aree che spetterebbero, perlomeno secondo la comunità internazionale, al futuro stato palestinese.


I coloni oggi hanno un peso politico rilevante (anche per ciò che il colono rappresenta nella storia del sionismo), e molti di loro sono tra i più intransigenti ed estremisti, quando si parla di questione palestinese. Non a caso essi rappresentano uno dei più grandi ostacoli alla risoluzione del conflitto.

La “confessionalizzazione” del conflitto

Sembra strano a dirsi oggi, eppure il movimento sionista dei primordi era marcatamente laico, e i suoi principali esponenti si richiamavano al socialismo. Gli ebrei ultra-ortodossi erano contrari al ritorno alla terra d’Israele, convinti che l’uomo non avrebbe dovuto anticipare eventi che si sarebbero svolti nell’era messianica. Dall’altra parte, i primi embrioni di un nazionalismo palestinese nacquero nel contesto culturale degli arabi di religione cristiana.


Tra i maggiori responsabili del coinvolgimento della religione nel conflitto fu il Muftì di Gerusalemme di allora, Haj Amin al Husseini. La carica del Muftì corrisponde grossomodo a quella di un giurisperito in diritto islamico, che ha la facoltà d’emanare pareri (fatwa) dal valore giuridico vincolante in materia religiosa. Haj Amin era al contempo un membro dell’eminente famiglia palestinese degli Husseini.


Divenne perciò l’interlocutore privilegiato del governo inglese sul territorio, in rappresentanza della popolazione araba musulmana. Fu il Muftì a farsi carico della frustrazione dei fellahin, scacciati dai loro terreni e costretti a spostarsi in città. Fu sempre lui a richiamare l’attenzione dei Paesi a maggioranza musulmana sulla questione palestinese, esercitando così una pressione sempre maggiore sulla autorità inglesi.


Haj Amin al Husseini cavalcò e politicizzò i piccoli dissidi di carattere religioso che inevitabilmente coinvolgevano musulmani ed ebrei, costretti a “condividere” i luoghi sacri del Monte del Tempio.


L’obiettivo era quello di ottenere la forza contrattuale necessaria per costringere l’amministrazione inglese a porre dei limiti all’immigrazione ebraica in Palestina. Anche tra i sionisti vi fu chi soffiò sul fuoco dello scontro religioso per ragioni politiche. Accadde perciò l’inevitabile: i cosiddetti moti del 1929, che colsero la polizia e il governo inglese impreparati. Si trattò di scontri aperti e su larga scala tra le due popolazioni, scaturiti da alcune diatribe riguardanti l’accesso al Muro del pianto, sacro agli ebrei.

Fu il punto di non ritorno: da quel momento Haganah (l’organizzazione per la difesa militare sionista) accrebbe la sua dotazione, mentre dall’altra parte si giunse all’aperta ribellione. Per di più, le ondate migratorie degli anni Trenta cambiarono definitivamente il tessuto sociale sionista, spostandolo su posizioni più intransigenti e conservatrici. Si preparò così la guerra che ancora oggi segna l’inizio dell’interminabile conflitto israelo-palestinese.

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