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  • Immagine del redattoreGiovanni Beber

Di conflitti, media e operatori di pace - Intervista a Fabio Pipinato

È sempre complesso parlare di pace e conflitti. Soprattutto nel contesto italiano, dove si racconta ancora troppo poco di ciò che avviene fuori dai confini nazionali. Come può un cittadino comprendere la realtà che lo circonda, se la sua visuale resta limitata? Ne abbiamo parlato con Fabio Pipinato, fondatore di Unimondo e ideatore del marchio World Social Forum.

Cosa significa parlare di pace, diritti umani, ambiente e sostenibilità in un contesto di guerra?

È abbastanza faticoso e contraddittorio. Parlare di questi temi è un paradosso, si rischia di mettere in discussione tutto quello che si è teorizzato per una vita. In questo momento storico mi trovo a pendere a favore della resistenza. Va anche detto che un certo mondo slavo russofono non è disposto a fermarsi come fece il mondo anglofono davanti alla resistenza nonviolenta attiva del modello gandhiano.


Tutto questo mi mette in contraddizione, soprattutto per quanto riguarda la sostenibilità. Non c’è nulla di più insostenibile di una guerra. La Russia sta spendendo 950 milioni al giorno per sostenere questo conflitto. Stiamo parlando di un Paese che non ha servizi igienici efficienti in alcune zone del suo territorio e i costi di questo conflitto acuiranno il divario sociale già presente.


Per quanto riguarda la pace, c’è quella positiva e quella negativa. La prima, per dirla con Turati, è si vis pacem para pacem e si ottiene investendo sui progetti internazionali come il servizio civile, per arrivare a circondare la guerra con gli operatori di pace. Per ottenere questo serve però un nuovo programma Europeo. La pace positiva convive con quella negativa. Il si vis pacem para bellum ci costringe ad armare uno Stato sovrano, per difenderlo da un aggressore esterno. Un Paese invaso ha il diritto di difendersi e l’ONU prevede che vada sostenuto.


In che modo questa guerra potrebbe cambiare l’Unione Europea? Si poteva fare qualcosa per evitare lo scoppio del conflitto?

Oggi alcuni Paesi che consideriamo Stati sono di fatto degli Imperi e i loro leader hanno conquistato il potere e lo hanno consolidato attraverso l’uso della forza. L’Europa è un Impero economico e in quanto tale dovrebbe dotarsi di una politica estera. Per raggiungere questo obiettivo andrebbe avviato un percorso che porti alla creazione di una difesa comune europea.


La guerra non è scoppiata per caso, sono zone che vivono un conflitto che si protrae da 10 anni e si poteva prevedere che prima o poi la Russia avrebbe avviato un processo di conquista. La NATO ha probabilmente esagerato, ma questo errore è figlio della mancanza di capacità politica, che non le appartiene. L’UE poteva svolgere un ruolo fondamentale in tal senso e lo scoppio del conflitto dimostra quanto abbiamo bisogno di una politica estera comunitaria, slegata dagli interessi dei singoli Stati. Va comunque ricordato che uno Stato aderisce alla NATO liberamente e che non viene annesso a forza.


Il rapporto dei cittadini italiani verso l’Unione Europea come cambierà, in seguito al conflitto?

I cittadini italiani seguono i media, e alle prossime elezioni molti partiti affermeranno di non aver mai voluto sostenere la guerra. Questo atteggiamento contribuirà ad aumentare la frammentazione interna.


Al momento molti media sono legati ai grossi partiti italiani, che hanno così voce in capitolo sulla narrazione della politica estera ed interna. Se a questo si aggiunge che spesso sono stati sostenuti direttamente da Mosca, possiamo prevedere anni a venire molto difficili per i partiti europeisti. Oggi non si può pensare di leggere la politica interna guardando esclusivamente a ciò che avviene all’interno dei propri confini, va fatto con gli occhiali della politica estera.


I media all’estero danno priorità alle notizie dal mondo, mentre in Italia si fa occasionalmente, in concomitanza con episodi su cui si vuole portare l’attenzione.


Che tipo di narrazione del conflitto stanno portando avanti i media italiani? In che relazione sta con la realtà e con le notizie proposte invece da altri Paesi europei?

L’Italia è tra le nazioni dei 26 con un’attenzione mediatica più favorevole alla Russia. Paolo Mieli ha fatto una buona narrazione del conflitto. Il nostro Paese ha la maglia nera dell’informazione, poiché all’estero le grandi testate di Francia, Regno Unito e Germania sono difficili da scalfire, così come quelle dei Paesi che appartenevano alla cortina di ferro.


Si è parlato di crimini di guerra, eppure il diritto internazionale sembra immobile, è così?

Crimini di guerra ce ne sono stati e sono stati monitorati dall’Alto commissario per i diritti umani di Ginevra, come nel caso di Bucha. Anche in questo caso i media contribuiscono a falsare l’immagine delle Nazioni Unite che passa. Ad esempio, negli stessi giorni del caso delle fosse comuni, la brigata Wagner ha causato anche più morti in Mali. Le Nazioni Unite possono sembrare immobili agli occhi dell’opinione pubblica, ma si tende a dimenticare che le situazioni da gestire sono molte e su tutto il pianeta.


Anche in questo caso, non va dimenticato che il Consiglio di Sicurezza ONU deve affrontare spesso il problema della sovranità degli Stati membri. Per assegnare uomini, mezzi e armi finalizzati al mantenimento della pace serve il consenso unanime del consiglio, ma Russia e Cina ne fanno parte e la loro presenza impedisce di fatto che si possano avviare processi che assicurino un rapida trasformazione positiva del conflitto.


Se in Italia l’informazione è parte di un processo calato dall’alto e il cittadino è impossibilitato ad agire, che cosa si può fare?

La situazione non è delle migliori, ma esistono delle alternative a cui guardare. Esistono riviste italiane che fanno un’informazione più completa. Una città, edito a Forlì, è uno di questi, ma sono tutte riviste che contano pochissimi abbonati, non abbastanza per poter svolgere un servizio d’informazione con ricadute importanti sulla società.


C’è un motivo per cui siamo stati declassati dal quarantunesimo al cinquantottesimo posto nella classifica di Reporters Sans Frontières sulla qualità della stampa. Prendendo atto di questo, le fonti vanno ricercate al di fuori dei giornali nazionali.


Che cosa può fare la cooperazione internazionale in questo caso? Che tipo di risorse può mettere in campo?

Nella cooperazione internazionale c’è un ambito dedicato all’Educazione allo Sviluppo (EAS), ma il lavoro nelle scuole non basta, ciò che fa colpo sui ragazzi è il fare, i segni concreti. Nel caso ucraino mettere a disposizione spazi e attivarsi per raccogliere beni utili attira molto di più di tanti incontri.


La cooperazione si occupa inoltre di mediazione e di diplomazia popolare, che considera diversamente dalle organizzazioni governative il popolo russo. Chi opera in questo ambito deve saper distinguere tra invasore e chi è stato invaso, ma non deve dimenticare che entrambi i popoli vanno considerati amici, solo così si ricopre il ruolo di figura terza, che contribuisca alla costruzione di ponti.


In ultimo, vanno purtroppo sottolineate le contraddizioni della cooperazione internazionale, uguali a quelle di informazione e politica. Molti nell’ambito umanitario rincorrono i soldi, per loro la situazione ucraina rappresenta un’opportunità di guadagno, anche se a fronte di interventi umanitari. Per queste realtà, l’umanitario fa parte del circolo della guerra.

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