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  • Matteo Gibellini

Hong Kong, il funerale del dissenso

È rimasta impressa negli occhi del mondo l’immagine del “Rivoltoso Sconosciuto”. Lo studente cinese disarmato e solitario che ha affrontato un plotone di carri armati sulla piazza Tienanmen. Di quel giovane non sappiamo però più nulla, come non si sa quasi nulla sui morti coinvolti in quella repressione.

Nel luglio 2020 il Pcc (ndr Partito Comunista cinese), che detiene a Pechino un potere ormai secolare, impone al governo locale hongkonghese la legge sulla sicurezza nazionale. Oltre ad impedire manifestazioni o qualsiasi altra cerimonia lesiva dello spirito patriottico cinese, usando la motivazione delle restrizioni anti-Covid.


La rimozione del “Pilastro della vergogna” (statua commemorativa della strage di Tienanmen) dal campus universitario di Hong Kong ne è un esempio.


Come ad Hong Kong, anche a Macao e Taiwan è stato imposto tale divieto. Il Pcc intende proseguire su questa strada per tentare di acquisire un controllo maggiore. Con l’entrata in vigore della nuova legge, salta l’Accordo tra Cina e Gran Bretagna e così la formula “un Paese due sistemi”, ponendo fine all’esperienza dei movimenti pro-democratici.


I cittadini hongkonghesi si sentono un po' come Davide contro Golia. Così come la Legge Fondamentale (Costituzione hongkonghese) che deve fare i conti con l’art.35 della Costituzione di Pechino. E la tutela della partecipazione dei cittadini alla formazione dei partiti politici e la libertà di informazione iniziano a venire meno.

Tutto ciò si sta concretizzando nella chiusura di alcune testate che, nonostante le continue pressioni da parte del governo di Xi Jiping, hanno resistito fino all’ultimo per affermare il proprio pensiero critico. Apple Daily, Stand News e Citizen News, sono state recentemente chiuse per le loro posizioni filo-democratiche e per le accuse di “pubblicazione sediziosa”.


Ma come mai le autorità cinesi sono intervenute su Hong Kong? Una prima risposta si trova nella presenza di uno Stato tipicamente hegeliano che inizia a dettare ciò che è bene e ciò che è male.


L’obiettivo principale di Xi Jiping, ribadito più volte nei suoi discorsi ufficiali, è quello di ridurre le disuguaglianze per perseguire il cammino dello sviluppo economico e della coesione. Questo al fine di trasformare la Cina nella prima potenza mondiale entro il 2049, anno del centenario della Repubblica popolare cinese. A dire il vero lo è già dal punto di vista economico. Ma per raggiungere i propri obiettivi usa il metodo classico del Pcc. O tutti o nessuno.


Per un cittadino di Pechino è normale andare nella stessa direzione degli altri, secondo il suo spirito patriottico di “agire per il popolo e non per l’individuo”. Per un cittadino di Hong Kong, tale principio rappresenta un pericolo per le proprie libertà individuali.

Hong Kong è sempre stata un ponte di collegamento verso il mondo esterno, nonché porta di accesso per i capitali stranieri in Cina. Ecco il perché dell’atteggiamento cauto assunto negli anni passati da parte di Xi Jiping nei suoi confronti.


Sembrano così lontane le mobilitazioni popolari del 2003 contro il tentativo del governo centrale di riformare l’Articolo 23 della Basic Law in senso restrittivo. Oppure quelle del 2012 contro la Riforma dell’Istruzione o, ancora, la celebre Rivoluzione degli Ombrelli del 2014 che chiedeva elezioni libere.


Nonostante le reazioni dell’Occidente, tra le sanzioni imposte dagli Stati Uniti e il boicottaggio dei Giochi Olimpici Invernali, con un’Italia assente, invischiata con Pechino, il dissenso è venuto a mancare nell’ex colonia.


Gli hongkonghesi sono “Rivoltosi sconosciuti”, lasciati soli e in balìa delle decisioni del governo centrale che non intende arretrare di un millimetro. Ci toccherà così celebrare il funerale del dissenso se la battaglia non verrà vinta, perché Hong Kong non è questione solo dei suoi cittadini ma anche nostra, perché se “crolla il suo sistema, crolla anche l’Occidente”.


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