Assieme all’aborto, l’uso delle cellule staminali embrionali a scopo di ricerca medica è uno di quei temi etico-morali capaci di scatenare dibattiti all’ultimo sangue.
Come mai? Perché le CSE (acronimo per “cellule staminali embrionali”, si intende) sono composte principalmente da cellule presenti nella blastula umana, il terzo stadio dello sviluppo embrionale umano.
Si rende ora ovvio il motivo delle tante controversie nate al riguardo; l’argomentazione più quotata contro questa procedura è tuttavia sempre la stessa: l’uccisione di un bambino non ancora nato.
Tralasciando la natura puramente spirituale - o aristotelica - di quest’argomentazione, secondo la quale un embrione non ancora formato sia un bambino in potenza, è bene smentire la stessa con quello che gli studi scientifici ci dicono al riguardo.
Le blastule precedentemente menzionate sono un agglomerato di cento cellule circa. Questo si forma in sei giorni dal concepimento, e può sopravvivere per un tempo limitato (circa quattro giorni) prima di impiantarsi nell’utero. L’annidamento nell’utero tuttavia non aggiudica all’embrione l’appellativo di feto: ci vogliono infatti ben otto settimane prima di allora, ovvero il lasso di tempo necessario affinché le strutture si siano formate completamente e siano pronte allo sviluppo.
Per coloro che invece si sentono più vicini alla definizione popolare di bambino, e considerano quindi tale un embrione che ne acquista anche lontanamente le sembianze, si può dimezzare questi cinquantasei giorni a ventotto giorni (tre settimane).
Insomma, tre o otto settimane che sia, l’uso della blastula al fine di ottenere delle cellule staminali è difficilmente paragonabile all’uccisione di un possibile bambino.
L’utilizzo delle cellule staminali embrionali è una delle più promettenti innovazioni scientifiche del secolo. Grazie alle CSE si può studiare la proliferazione delle cellule tumorali, in quanto condividono con esse geni che ne permettono la più che veloce moltiplicazione.
La cosiddetta “medicina rigenerativa” inoltre si prospetta di utilizzare quelle stesse cellule per rigenerare un midollo spinale gravemente lesionato, o addirittura per rigenerare i tessuti danneggiati da malattie neurodegenerative quali il tristemente noto morbo di Parkinson.
Tornando alla visione meramente etica del dibattito, viene da domandarsi quali debbano essere i pesi da adottare.
Condannare l’uso delle cellule staminali embrionali a scopo di ricerca per salvare una vita può, allo stesso tempo, condannarne un'altra? Può l’esistenza di un gruppo di cellule - difficilmente considerabili vita umana - essere più importante delle effettive vite umane che si potrebbero salvare nel caso gli studi al riguardo avessero successo?
Sborsare milioni di dollari in cure sperimentali per salvare la propria moglie da una malattia mortale è considerato nobile e romantico solo nei film?
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