top of page
  • Anežka Žáková

25 Aprile e diritti umani: quale significato di “Liberazione”?


Quest’anno, il significato dell’anniversario e del termine “Liberazione”, si unisce nelle nostre menti al sollievo e alle speranze che accompagnano la fine di un altro periodo di restrizioni: la riapertura che avrà luogo per molte regioni il giorno successivo, lunedì 26 aprile. Che cosa ci ha insegnato la pandemia e che cosa ci insegna il presente sul nostro rapporto con questa ricorrenza storica? Ha un senso festeggiare il 25 Aprile se non se ne onorano i valori fondamentali, primi tra tutti i diritti inalienabili di ciascun essere umano?



È passato un anno da quel 25 Aprile in pieno lockdown, vissuto nella solitudine delle proprie case, tra dirette online, canti dal balcone e bandiere italiane appese ai cornicioni. Esattamente un anno fa, lo storico Alessandro Barbero ricordava l’urgenza di porsi nuovamente una domanda tutt’altro che ovvia: “Perché ricordare il 25 Aprile”?


In un presente sempre più lontano dai fatti della Resistenza, il vero rischio per il significato di questo anniversario non è rappresentato dall’inevitabile incedere della storia, con le sue nuove preoccupazioni e sfide, bensì dal revisionismo a posteriori, dalle polarizzazioni, dalle strumentalizzazioni del passato. “Ma voi davvero avreste preferito che vincessero Hitler e Mussolini? Davvero avreste preferito vivere nell’Italia delle leggi razziali e della camicia nera?”, incalzava dal suo video Barbero, alludendo a quanti oggi storcono il naso al sentir parlare di “Liberazione” o cantare “Bella ciao”. Non sono domande retoriche. A interrogarsi onestamente, ben pochi potrebbero sentirsi a loro agio nel rispondere affermativamente, concludeva lo storico.


Sempre un anno fa, usciva “Non sono io”, un video realizzato dalle associazioni Cospe e Carta di Roma per dare voci agli immigrati che, a fianco degli italiani, lavoravano per arginare il male dilagante del virus nelle corsie d’ospedale, nelle Rsa o in strada per le consegne a domicilio. Immigrati che, al pari degli italiani, celebravano il 25 Aprile. “Non siamo né eroi, né invasori” era il chiaro messaggio rivolto ad un’Italia sempre più attanagliata dall’incertezza che la pandemia portava con sé, e così sempre più a rischio di chiusura e rifiuto dello straniero, del diverso, a causa delle ipotetiche minacce (virus compreso) che l’altro può rappresentare in un immaginario dominato dalla paura.


Ed eccoci ad oggi. “Cosa abbiamo imparato da quest’esperienza? Ne usciremo migliori?” si chiedevano in tanti la notte del 31 dicembre 2020, al concludersi di un anno terribile ed eccezionale. Cosa succede oggi che ci apprestiamo a celebrare un altro 25 Aprile?

Tra le tante notizie che iniziano già a circolare sul web circa le modalità con cui sarà ricordata quest’anno la Festa della Liberazione, ce n’è una che sarà forse passata inosservata ai più; ma è proprio questa notizia, in apparenza marginale, quella che, fra tutte, va dritto al cuore di questa festività, quella che più affonda le radici negli ideali di chi per quella liberazione ha lottato.


Proprio il 25 Aprile 2021 si concluderà infatti il digiuno a staffetta indetto a partire dal 17 gennaio 2021 dalla Rete Dasi Fvg Diritti Accoglienza Solidarietà Internazionale, per protestare contro i respingimenti dei profughi lungo la rotta balcanica. L’iniziativa, partita dal Friuli Venezia Giulia ed estesasi in breve a tutta la Penisola, ha visto l’adesione di operatori e ospiti di centri di accoglienza, cittadini e attivisti (tra cui Lisa Clark, co-presidente dell’International Peace Bureau e rappresentante italiana dell’ICAN, la Campagna Internazionale per la messa al bando delle armi nucleari).


Le violazioni dei diritti umani che si stanno perpetrando solo poco più ad Est rispetto all’Italia, praticamente a due passi da casa nostra, sono sotto gli occhi di tutti, ma al tempo stesso sono pressoché invisibili. La copertura mediatica è sporadica ed irrisoria rispetto alla gravità dei fatti. Si era molto parlato ad esempio, ad inizio pandemia, del campo profughi di Moria, progettato per accogliere 3.000 persone e sovraffollato al punto da contenerne 13.000. La motivazione principale di un certo interesse di pubblico per la questione era però in gran parte costituita dal (legittimo) timore che il campo si trasformasse in un focolaio di covid-19 senza precedenti.


L’emergenza sanitaria ha costretto i profughi ammassati in questo ed altri campi simili ad una rigida quarantena prolungata, che non si è interrotta neanche con l’estate, portando Medici Senza Frontiere a denunciare, il 3 settembre scorso, gli enormi rischi di tale situazione per la salute psicologica. Con l’inverno le condizioni nei campi sono ancora peggiorate, con l’imperversare delle intemperie: a questo gennaio risalgono le foto dei migranti bloccati in Bosnia, esposti al gelo, che hanno riacceso nuovamente i riflettori sulla tragedia umanitaria che si sta consumando alle porte dell’Europa. Il 18 gennaio, il Tribunale di Roma condannava la condotta del Ministero dell’Interno con la sentenza del giudice Silvia Albano, definendo illegittime e incostituzionali le riammissioni informali dei richiedenti asilo dall’Italia alla Slovenia “in mancanza di garanzie sull’effettivo trattamento che gli stranieri avrebbero ricevuto negli altri paesi”.


È stato allora che qualcuno ha scelto di porre fine, con un gesto forte ed eloquente, al silenzio “sulle responsabilità dell’Europa e dell’Italia di fronte alla situazione drammatica che sta avendo luogo a Bihac, in Bosnia, ed alla catena di respingimenti informali, commessi anche con l’uso documentato di violenze e torture, che coinvolgono Italia, Slovenia e Croazia”, come ha dichiarato la Rete Dasi Fvg, promotrice dell’iniziativa di protesta.


È una data non casuale, quindi, quella del 25 Aprile, come termine del digiuno a staffetta per i diritti umani. L’alto valore simbolico di un giorno come la Festa della Liberazione, dovrebbe ricordare che le battaglie per la libertà, per la garanzia dei fondamentali diritti umani, non si sono concluse quel 25 Aprile 1945. Ogni epoca ha la sua battaglia da combattere, i propri oppressi da liberare: e così, la sfida del nostro presente potrebbe essere proprio quella lanciata dall’appello “Tutte le vite valgono #rottabalcanica #norespingimenti”. Una battaglia per il momento tutt’altro che vinta: la liberazione è ancora lontana.

bottom of page