Cos’hanno a che fare la fantascienza e l’arte con le questioni razziali più pressanti della nostra società? Molto, anzi tutto secondo l’afrofuturismo, che le impiega per immaginare un futuro diverso dal nostro.
Milano, periferia. Omar è un ragazzo italiano di origini senegalesi, uno dei molti volti invisibili che abitano il Barrio, immaginario quartiere popolare ai margini del capoluogo lombardo. Quartiere da cui Omar sta cercando di scappare ma che finirà per salvare dalle mani di architetti senza scrupoli collusi con la criminalità organizzata. La chiave sarà il potere che lo contraddistingue, reale quanto metaforico: la capacità di diventare invisibile.
Questa è l’ambientazione di Zero, serie Netflix lanciata a marzo 2021 con un cast quasi interamente composto da attori e attrici afroitaliani. Prodotta da Fabula Pictures e Red Joint Film, la serie è liberamente ispirata al romanzo Non ho mai avuto la mia età (Mondadori) dello scrittore italiano Antonio Dikele Distefano. In un paese con persistenti problemi di razzismo e discriminazione come l’Italia, Zero rappresenta un tentativo di dare voce alla comunità afroitaliana. Una voce indipendente, autonoma, che non rinuncia al fantastico come strumento narrativo per raccontarsi e per parlare delle discriminazioni sistemiche che subisce e che ne oscurano il punto di vista.
La serie compie dunque un significativo passo tematico in avanti per il contesto italiano, in cui fantascienza e tematiche razziali dialogano molto poco rispetto a realtà multietniche e tecnologiche come gli Stati Uniti. È dalla spinta creativa di artisti e musicisti afroamericani infatti (Sun Ra, George Clinton e i Funkadelic) che fin dagli anni ‘70-‘80 ha iniziato a delinearsi una corrente culturale che unisce emblematicamente la questione razziale con quella del suo futuro: l’afrofuturismo.
Termine coniato nel 1993 dal critico culturale Mark Dery nel saggio Black to the Future, l’afrofuturismo abbraccia tutte quelle esperienze africane e della diaspora africana che reimmaginano attraverso musica, arte visuale, letteratura fantasy e fantascientifica, un futuro di liberazione e prosperità. Diversi sono i temi ricorrenti. Viaggi spaziali e incontri alieni costituiscono chiavi di lettura dell’esperienza di alienazione della deportazione coloniale e dell’incontro con il diverso. Il tema dell’acqua assume una duplice valenza, come origine della vita (si veda ad esempio Pumzi, cortometraggio del 2009 della regista kenyana Wanuri Kahiu) e come simbolo di cesura dal proprio passato, reciso dalla tratta transoceanica. A tutto ciò fa da sfondo la tecnologia, strumento di oppressione ma anche di redenzione verso un futuro libero e autodeterminato (Binti, di Nnedi Okorafor).
Il termine stesso “afrofuturismo” non è stato esente da discussioni critiche, innanzitutto per essere stato coniato da un critico non afroamericano, nonché per essere centrato sulle sole esperienze degli afroamericani. Al contrario la scrittrice nigeriano-americana Nnedi Okorafor preferisce descrivere le proprie opere come african futurism (Lagoon e il già citato Binti), indicando un approccio che prende l’Africa come base di riferimento. In questo modo sarebbe possibile ripensare un futuro definito a partire dalla propria cultura d’origine recepita in sé e non come mera contrapposizione alla cultura dei colonizzatori.
Portata sul grande schermo da Black Panther nel 2018, il Wakanda è una nazione africana isolata che non ha mai subito l’interferenza dell’Occidente, potendo svilupparsi in completa autonomia. Grazie ai grandi giacimenti di vibranio, metallo di fantasia dalle proprietà strabilianti, il paese ha creato una civiltà futuristica senza perdere però di vista le proprie tradizioni. Parte di quel grande contenitore di mondi immaginari che è la Marvel, il Wakanda offre un perfetto esempio di come l’arte e il cinema possano contribuire a immaginare un’Africa ricca e tecnologicamente avanzata. Il Wakanda viene così a rappresentare l’armoniosa conciliazione di innovazione e tradizione su basi totalmente africane, proiettandone il popolo in un futuro di prosperità e libertà.
Buona parte dell’appeal visuale di Black Panther deriva sicuramente dall’attenzione posta al design di tecnologie, costumi e ambienti, ispirati dallo studio diretto di numerose culture africane, come Himba e Basotho. Tecnologia e tradizione sono andate in questo modo a fondersi creando un design futuristico di forte ispirazione africana. Grazie a questi elementi visuali e al cast quasi totalmente nero, Black Panther ha offerto così al grande pubblico un potente immaginario a cui le giovani generazioni afrodiscendenti non possono che guardare con ammirazione.
In Italia al contrario facciamo ancora molta fatica a svolgere simili esercizi dell’immaginazione. Nell’immaginario comune una persona di colore non viene quasi mai associata ad una professione prestigiosa o ad una condizione agiata, e lo sguardo che incontra è spesso pietoso quando non di aperta discriminazione. L’afrofuturismo mette in questione precisamente questa visione, creando un immaginario di emancipazione, ingegno e creatività. Immaginazione che non può non fungere anche da indicazione dei modi possibili per avviare un cambiamento culturale verso una giustizia e una solidarietà maggiori.
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