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  • Immagine del redattoreLuigi Prosser

L'invidia del pronome

Aggiornamento: 10 giu 2021

Il linguaggio non solo riflette la società ma la plasma intervenendo sul nostro pensiero. Questa è l’ipotesi del determinismo linguistico di Sapir-Whorf, che sostiene come la nostra visione della realtà sia limitata alle strutture rese disponibili dalla nostra lingua. Negli ultimi decenni questa ipotesi è entrata nel dibattito femminista concretizzandosi in un interrogativo: può un determinato uso del linguaggio alimentare le disuguaglianze di genere?



Partiamo da qualche dato di fatto: il linguaggio in sé è arbitrario e formato da convenzioni. Ad esempio, il genere come categoria grammaticale spesso non coincide con la nozione di genere (la tavola non è più femminile del vaso). Inoltre l’italiano non prevede l’esistenza di un genere grammaticale neutro, ragion per cui si ricorre all’uso del maschile in presenza di due o più individui di genere diverso; lo stesso dicasi quando si intende indicare indistintamente sia individui di genere femminile che maschile.


Possiamo quindi dire che il linguaggio fa fronte a una gamma di situazioni astratte, tentando di trovare un compromesso sufficientemente inclusivo. Da qui il principale problema: il linguaggio inteso come comunicazione non è quasi mai un fatto teorico. Le situazioni comunicative riguardano soggetti concreti, dotati di tratti distintivi legati a varianti sociali, culturali, anagrafiche, ma soprattutto soggetti inevitabilmente dotati di un genere, sia pur esso complesso o fluido.


Questo utilizzo indiscriminato del maschile agisce su due livelli, uno pubblico ed uno personale. A livello pubblico, come faceva notare Alma Sabatini in Il sessismo nella lingua italiana, il maschile non marcato “con la sua ambiguità nasconde l’effettiva presenza così come l’effettiva assenza delle donne nelle varie istituzioni”. A livello personale invece viene a mancare il sentimento di inclusione e rappresentatività: a parti invertite, come suonerebbe per un uomo imbattersi continuamente sia nello scritto che nel parlato in forme determinate come ‘signora’, ‘la sottoscritta’, ‘dottoressa’, etc.?


In ambito lavorativo risulta evidente lo scarso impegno nell’utilizzo di forme che contemplino l’appartenenza al genere femminile. “Il rischio per la nostra lingua è quello di continuare a trasmettere una visione del mondo superata, densa di pregiudizi verso le donne e fonte di ambiguità e insicurezze grammaticali e semantiche” afferma la professoressa Nicoletta Maraschio, eletta presidente dell’Accademia della Crusca nel 2008. Questo discorso vale soprattutto per cariche istituzionali e impieghi preclusi per molti anni alle donne: ‘presidente’, ‘senatore’, ‘giudice’, ‘dottore’, ‘avvocato’, etc.


Come osservava Alma Sabatini, è pratica diffusa che lavori “tradizionalmente maschili” vengano declinati al femminile attraverso il semplice utilizzo dell’articolo corretto. Ecco che così vengono a cadere termini di fantasia coniati da certi ambienti del centro-destra come “presidenta”, in favore di “la presidente”, per citare il caso della battaglia portata avanti dall’on. Laura Boldrini durante il suo periodo alla presidenza dalla Camera dei deputati. Non è stato però questo il caso delle predecessore Nilde Iotti e Irene Pivetti: le due ex-presidenti hanno sempre preferito l’articolo maschile con “il presidente”. Appare però evidente che l’appropriazione di forme maschili come affermazione di parità di genere non sia certo una soluzione ideale.


Alle volte la declinazione al maschile diventa un fatto marcatamente qualitativo e discriminatorio, al di là delle possibili spiegazioni linguistiche e grammaticali. Ne dà un esempio calzante Loretta Goggi al TG3 per presentare il film Burraco fatale: “Avete mai fatto caso che i grandi attori uomini vengono chiamati ‘maestro’, e che le donne, grandi attrici, non vengono mai chiamate ‘maestra’?”.


Spingendosi ancora più in là con il discorso, l’affermarsi di identità di genere che esulano da un’ottica binaria e cisessuale ha portato varie realtà a cercare soluzioni per un linguaggio sempre più inclusivo. Perciò nascono, affianco alla doppia opzione “caro/a”, suffissi meno invadenti come l’asterico “car*” o lo scevà “carƏ”. L’intuizione non è errata: certo l’italiano possiede strategie e strutture più inclusive, ma non sempre sono sufficienti. Se vogliamo che la lingua assomigli sempre di più a noi dobbiamo lavorare attivamente per cambiarla.

Ora, è importante tenere a mente che dietro al linguaggio sono presenti rapporti di potere non indifferenti. Se l’ipotesi Sapir-Whorf si rivelasse almeno in parte fondata, vorrebbe dire che un linguaggio non inclusivo non solo mina la rappresentatività, dando immagine di una realtà in cui il genere maschile soverchia quello femminile – e qualsiasi altro –, ma rende la società stessa meno elastica e predisposta al cambiamento sociale e culturale.

Escludere a priori una soggettività, limitando l’espressione di una pluralità quanto più ampia possibile, è una pratica anacronistica e di stampo patriarcale.


La lingua è naturalmente dinamica ed in continua evoluzione: contro ogni previsione termini come ‘lockdown’ sono entrati nelle nostre discussioni quotidiane, e ovunque si assiste all’uso improprio di ‘piuttosto che’ con funzione disgiuntiva. Spesso dietro ad una concezione sacrale e statica della lingua e della grammatica si nasconde solo la mentalità ottusa – e la cattiva fede – di qualcuno che della lingua (e della linguistica) non ha capito niente.


In fin dei conti, visto che il cambiamento è insito nella natura stessa della lingua, non c’è ragione per non fare un passo nella giusta direzione intenzionalmente. Senza l’illusione di cambiare il mondo – o peggio rivoluzionare il modo che le persone hanno di vederlo – ma nella convinzione di star facendo qualcosa che, al netto di non danneggiare nessuno, rende tutti un po’ più liberi e rappresentati.


Il cambiamento sociale avviene ANCHE attraverso il linguaggio.

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