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  • Nicola Pisetta

La democrazia compromessa

Aggiornamento: 4 mar 2021

La democrazia compromessa al referendum del 21-22 settembre: il rischio di perdere la rappresentanza senza un ruolo effettivo da parte del popolo.



Il referendum costituzionale: l’ennesima prova popolare per tagliare i seggi dei tanto odiati e costosi deputati. Lo storico cavallo di battaglia del Movimento 5 Stelle, ripreso negli anni anche dalla Lega (sic!) come mezzo, assieme a quello dell’immigrazione, per la ricerca di consenso, diviene il momento della verità: la vittoria del No potrebbe significare un duro ed ennesimo colpo alla tenuta, già fragile di suo, del Movimento.


Il maggiore rischio, col tempo, dei 5 Stelle è quello di vedersi scindere in altri partiti e movimenti indipendenti, scatenando l’ennesima polveriera pluripartitica: in fondo, il Movimento resta un concentrato di posizioni e di menti diverse, che usa la maschera del populismo e dell’antipolitica per celare quel continuum di ideologia e di liberalismo, spesso confuso erroneamente, in tempi recenti, con la corrente mondiale del neoliberismo.


Il Movimento è una bomba pronta ad esplodere ma una visione, al suo interno, è certa: la democrazia diretta mette d’accordo tutti e nessun litigio interno, negli anni, è nato dall’idea di rigettarla. Un principio, questo, che per un democratico dovrebbe essere il non-plus ultra della bellezza della democrazia stessa: l’idea di garantire un più ampio potere al popolo, contro ogni possibile imperfezione liberal-democratica.


Maggiore voce ai cittadini, maggiore coinvolgimento politico anche tra chi, la politica, non la fa, minore rappresentanza tra le cariche politiche al potere, che si vedono così limitare il proprio raggio d’azione, a cominciare dal rango più basso della gerarchia, quello dalle cariche comunali. Su questo, per chi non supporta ogni idea di democrazia rappresentativa, gioca un ruolo fondamentale la Svizzera: una democrazia semi-diretta, che unisce il ruolo di partecipazione popolare a quello rappresentativo.


La domanda, tuttavia, sorge spontanea: funzionerebbe, in Italia, un analogo sistema? Per rispondere al quesito, dalla Svizzera sorge un esempio lampante: quando il 4 marzo 2018 i cittadini italiani erano chiamati alle urne per il rinnovo di Camera e Senato, lo stesso giorno in Svizzera il popolo era tenuto a rispondere al referendum sull’abolizione del canone della TV pubblica svizzera. Immaginiamo, per un attimo, i risultati di un quesito così, in Italia: rispondendo a caldo e usando l’immaginazione, il risultato parrebbe scontato e quasi unanime: togliere l’odiato canone – una sorta di tassa sul macinato del nuovo millennio - e risparmiare.


In Svizzera, paese pieno di tasse, vinse però il quesito contrario: il canone, tra i più costosi d’Europa, restava. Perché? Giocò un ruolo fondamentale il rapporto nazionale tra le sedi televisive, quelle corrispondenti alla nostra RAI: la SRF dei cantoni tedeschi, la RTS di quelli francesi e la RSI del canton Ticino e delle valli di lingua italiana del canton Grigioni. Togliendo il canone, gli abitanti svizzeri originari di un cantone di lingua diversa rispetto a quello di residenza avrebbero rischiato di perdere il servizio e la visione del canale nella propria madrelingua. Oltre al rischio, nel canton Grigioni, di vedersi scomparire la RTR, l’emittente che trasmette i programmi in romancio, la quarta lingua ufficiale della Svizzera.


Tesi, queste, che fanno capire come, in realtà, l’eventuale soppressione del canone sarebbe stata sì democratica perché scelta dal popolo, ma antidemocratica se valutata da un punto di vista di tutela linguistica interna, specie se presa in considerazione nei confronti della minoranza nazionale romancia. Dunque, un vero e proprio ossimoro.


Per la Svizzera, il referendum, anche sui quesiti più delicati, è parte integrante della cultura storica nazionale. Fonda, infatti, le sue radici sulla longeva tradizione medievale del Landsgemeinde: un sistema elettorale unico al mondo, sopravvissuto oggi solo nei cantoni di Glarona e di Appenzello Interno, che vede la scelta di un quesito nella pubblica piazza e per alzata di mano.


L’Italia, dal canto suo, in quasi 160 anni di unità non ha mai avuto un sistema elettorale che pone, ogni anno, decine di quesiti popolari, anche comunali. L’Italia si affida alla carica eletta, sperando che questa possa garantire efficacia nel proprio operato. Se si perdono i seggi, in caso di vittoria del Sì al referendum sul taglio dei parlamentari, dai collegi elettorali più ridotti in termini di abitanti si rischia di vedere scomparire, o ridurre drasticamente, i propri rappresentanti: potrebbero ripagarne le conseguenze negative le regioni più piccole e meno popolose.


Un duro colpo alle minoranze. Il rischio della minore rappresentatività, senza un discorso che possa, almeno in parte, seguire il modello svizzero-federale, significherebbe peggiorare il grado di democrazia, già compromesso dalla Democracy Index 2019 (uno dei più importanti Indicatori di Democrazia del mondo, stilato annualmente da The Economist) che include l’Italia nella cosiddetta “Democrazia Imperfetta”: per capire meglio la scala, è posta un gradino sotto alla “Democrazia Completa” riconosciuta non solo alla Svizzera, ma anche ad altri paesi nordici come quelli scandinavi, oltre a Canada, Australia e Nuova Zelanda.


O si resta rappresentativi o, in caso di tagli, sarà necessario rivedere il concetto di democrazia diretta: non sarà, meglio, tagliare gli stipendi di ogni parlamentare, calcolandoli in base alla propria presenza a Montecitorio o a Palazzo Madama? Ci sono tante tesi diverse, tra pro e contro, in un contesto che sfiora però la farsa: un referendum dovrebbe aprire i canali di un grande dibattito e fin qui, tra i mass media e gli stessi rappresentanti politici, resta tutto ancora sterile, immobile, quasi come fosse ininfluente. In un referendum, per giunta, che non prevede il quorum. Si tratta di una grande e storica responsabilità popolare, stranamente finita, finora, nel più profondo dimenticatoio.

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