I numeri
Nonostante si tratti di un fenomeno pervasivo e sistemico, i fatti legati al caporalato emergono e scompaiono con incostanza nelle cronache nazionali. Per questo, per fotografare la reale portata del problema, è opportuno rivolgersi ai dati.
Secondo i riscontri dell’INPS, il lavoro dipendente in agricoltura conta 1 milione e 200 mila unità, il 70 per cento delle quali di nazionalità italiana. Questi numeri, però, non prendono in considerazione il lavoro irregolare, che durante l’emergenza Covid ha raggiunto un tasso del 48 per cento nel settore agricolo - quasi un lavoratore su due.
A lavorare in nero sono per lo più le persone straniere, facilmente ricattabili dal datore di lavoro a causa della condizione di invisibilità ed emarginazione cui li costringono le politiche migratorie. Secondo le stime del V Rapporto “Agromafia e caporalato” realizzato dall'Osservatorio Placido Rizzotto (Opr), includendo i soggetti privi di permesso di soggiorno o non iscritti alle liste anagrafiche, i lavoratori stranieri in agricoltura sarebbero in totale 405mila. Tra questi, 136mila persone sarebbero occupate in nero e 60mila percepirebbero una retribuzione inferiore a quella sindacale.
La sanatoria introdotta dal decreto Rilancio avrebbe dovuto rappresenta un punto di svolta per la regolarizzazione. Invece, a un anno dal provvedimento, le richieste di emersione pervenute per il settore primario sono state 30.694 di cui soltanto 13mila accolte. Numeri esigui rispetto ai 228mila lavoratori agricoli irregolari previsti dal ministero, e ancor più se confrontati con le stime emerse dalle indagini dell’Opr.
Il lockdown ha finito per determinare un generale peggioramento delle condizioni di vita dei braccianti. La carenza di manodopera stagionale causata delle restrizioni alla mobilità ha comportato un aumento degli orari di lavoro e un’ulteriore riduzione degli stipendi.
L’indagine conoscitiva deliberata dalla Camera ha evidenziato anche un declino nelle condizioni di salute. Questo è dovuto al mancato utilizzo di dispositivi di protezione individuale, all’impossibilità di accedere alle informazioni sanitarie riguardanti il Covid e alle pessime condizioni igieniche degli alloggi.
La normativa
Il legislatore è più volte intervenuto per contrastare il fenomeno del caporalato, da ultimo con la Legge n.199 del 2016 che ha ampliato la fattispecie di reato. Oggi è più facile che si configuri l’ipotesi di caporalato, perché non è più necessario che il lavoratore sia sottoposto a violenze e minacce (considerate invece circostanze aggravanti), né che sia inserito in un più ampio schema di organizzazione del lavoro illecito.
Inoltre, la nuova legge non si limita a definire la responsabilità del caporale per il reato di intermediazione illecita, ma consente di punire anche il datore di lavoro per il reato di sfruttamento lavorativo, qualora abbia approfittato dello “stato di bisogno” dei braccianti.
Sono stati poi inseriti nuovi strumenti di contrasto come l’arresto in flagranza e la confisca di beni, prodotti e profitti, che vengono ora riassegnati al Fondo anti-tratta.
Infine, è stata introdotta la possibilità di adottare misure cautelari come il sequestro o il controllo giudiziario dell’azienda. Quest’ultimo viene posto in essere nel caso in cui lo stop dell’attività dovuto all’arresto del proprietario provochi conseguenze negative per i lavoratori. La misura riveste un’importanza fondamentale, poiché incentiva i dipendenti a denunciare senza la paura di perdere il lavoro e di tornare a vivere in condizioni peggiori a quelle patite “sotto il padrone”.
Le centinaia di inchieste aperte grazie alla Legge n. 199/2016 non vedono coinvolte soltanto le aree meridionali tradizionalmente colpite dal fenomeno, ma anche il Centro-Nord, a riprova del fatto che i sistemi criminali inseguono la ricchezza. Tra le regioni più colpite, oltre a Sicilia, Calabria e Puglia, vi sono infatti Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna.
Nonostante le operazioni condotte negli ultimi anni abbiano dimostrato l’adeguatezza della nuova legge sul piano repressivo, le misure disposte per la prevenzione e la tutela dei lavoratori rimangono ancora largamente inattuate. In particolare, appare prioritario predisporre nei territori servizi sociali potenziati in grado di fornire strutture di prima accoglienza, tutela legale, supporto sanitario, protezione e assistenza alle vittime di sfruttamento.
Lo sfruttamento sessuale
I maggiori vuoti di tutela si riscontrano nell’ambito del lavoro femminile.
Nel settore agricolo, le lavoratrici sono spesso preferite, poiché più delicate e meno costose. Percepiscono, infatti, stipendi inferiori fino alla metà rispetto a quelli maschili, nonostante le ore di lavoro effettuate siano pressoché identiche.
Similmente a quanto accade per gli uomini, le braccianti vengono avvicinate dalle “caporale”, connazionali che guadagnano la loro fiducia e successivamente approfittano della loro vulnerabilità, specialmente in presenza di figli.
Nelle serre, poi, vige una dinamica del ricatto: ogni bracciante sa che prima o poi riceverà inviti dal proprietario, e che se rifiuterà verrà presa con la violenza, licenziata o minacciata di ripercussioni per sé o per i figli.
Il corpo delle lavoratrici è considerato proprietà di padroni e caporali che, oltre ad abusarne personalmente, arrivano a venderle come prostitute nelle campagne e nei ghetti.
Le violenze si consumano soprattutto nei confronti delle donne provenienti da Romania e Bulgaria, ma sono diffuse anche tra le braccianti italiane.
Clicca qui per leggere la prima parte (https://www.into-it.online/post/lontani-dagli-occhi-donne-e-uomini-ridotti-in-schiavit%C3%B9-nelle-campagne-italiane)
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