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  • Anna Bortuzzo

Nomadland, cinematografia della libertà

Esce nei cinema dopo un anno di pandemia, ma i più lo vedono a casa, sulle piattaforme streaming. Quella casa che per contrasto sullo schermo appare pochissimo, e dà un senso di prigionia.

Il film di Chloé Zhao vince tre premi oscar – miglior film, miglior regista, miglior attrice protagonista – che si vanno a sommare ai numerosi riconoscimenti già ricevuti in molti festival e awards. “We give this one to our wolves” (lo dedichiamo ai nostri lupi) e parte l’ululato di Frances McDormand, si mischia agli applausi del pubblico, l’attrice protagonista così simile al personaggio che rappresenta, quella Fern che ci ha stretto il cuore, e poi ce lo ha fatto esplodere di libertà e bellezza.


Un film che secondo certi aspetti risulta interrotto, spezzato, confuso. La continuità dell’inquadratura viene tagliata, letteralmente dei cuts di montaggio, lunghi piani sequenza che in post-produzione vengono abbreviati, amputazioni frequenti e ovvie. Il film che all’improvviso sembra raccontato per diapositive. Affidandoci ad una terminologia franco-anglofona potremmo dire che si tratta di montage più che di editing, uno stile che non si lascia incatenare dalle convenzioni narrative e che invece si divincola, volteggia nella libertà che si è guadagnato.


È proprio questa libertà la vera protagonista del lavoro di Zhao, non solo nella storia che ci viene raccontata ma anche, e soprattutto, nel modo in cui appare sullo schermo.


Dialoghi che un cinema commerciale definirebbe morti, nel senso che non sono essenziali né funzionali all’azione, all’evoluzione narrativa. Dialoghi così spontanei e semplici che abbiamo il dubbio si tratti di un documentario e non di fiction. Il dubbio si intensifica in alcune scene, così intime e marginali alla narrazione che in un film di fiction difficilmente verrebbero mostrate: fra queste spicca l’attacco di diarrea nel van, un evento improvviso, che coglie di sorpresa sia Fern che gli spettatori, una scena che ancora una volta scavalca i limiti di ciò a cui siamo abituati e ci fa tentennare, spingendoci verso la realtà del documentario.


È proprio questo episodio, ignorato dai più, che mette in risalto il talento di regista, attrice e crew. Una scena la cui artificialità non solo è nascosta ma addirittura negata. Un imprevisto così genuino che sicuramente non può essere stato architettato. Eppure dopo un paio di secondi arriva lo tsunami, che stravolge le nostre convinzioni e ci annega nel dubbio: come fa la crew ad essere dentro il van, come è possibile che – anche fossero miracolosamente riusciti a catturare quel momento – Fern abbia permesso alla produzione di usare quel filmato?


Di nuovo la libertà: libertà di muoversi fra le categorie, di non seguire le convenzioni, libertà di lasciare lo spettatore nel dubbio, nell’attesa, libertà di porre domande senza dare risposte. Quella di Zhao non è una regia dichiarativa, non vuole essere manifesto di una propria idea o opinione; è al contrario una regia che si pone domande e che, insieme allo spettatore, cerca delle risposte.


La piccola crew segue Frances McDormand con camere a mano, il movimento sta tutto lì, non nel montaggio ma nella ripresa, nella libertà di spostamento e di reazione della telecamera, una Nouvelle Vague che si sposta dalle grandi città europee ai deserti e praterie americane.


Assieme a Fern cerchiamo risposte in quei paesaggi immensi, un’America di cui ci eravamo dimenticati, un’America senza case, perlopiù desertica, una strada solitaria su cui sfrecciano poche macchine.


Un paesaggio vasto, eterno, sempre presente nelle inquadrature, anche nei primi piani: in questo caso la lente grandangolare permette di inquadrare tanto, soprattutto il nulla.

Le location sono tutte reali, la luce è naturale, spesso quella di un sole basso all’orizzonte. Luce soffusa che sembra ingrandire ulteriormente lo spazio, rendendolo ancora più vuoto. Un “palco” vuoto, letteralmente desertico, dove il personaggio di Fern vaga, si perde, si interroga, si confronta ed infine si ritrova.


È l’esaltazione di un bambino quella che leggiamo nei movimenti di Fern quando, saltellando nel labirinto roccioso del parco nazionale delle Badlands, le viene chiesto se ha trovato qualcosa di interessante. Rocks! La sua risposta è urlata, potente, carica di un’energia che ci sorprende, lei che spesso mugugna, borbotta mezze risposte agli altri nomadi.


Non è un caso che questa scena sia posizionata esattamente a metà film, tra l’inizio titubante e difensivo della sua vita da nomade ed il momento in cui accetta e decide di fare parte della comunità. Da questo momento la protagonista abbraccia una libertà conquistata, rincorre quella raccontata nelle storie altrui, sceglie questa vita – per la prima volta consapevolmente e volontariamente. Come successivamente lei stessa confesserà, Fern ha passato troppo tempo a ricordare invece che a vivere, imprigionata in un’idea di vita che però non poteva più condurre.


Alla fine del film ritorna ad Empire, la città fantasma in cui tutto è iniziato ed è poi finito. Varca finalmente il cancello che dalla sua vecchia abitazione si apre sul deserto americano innevato: un cancello simbolico fra passato e futuro, fra prigionia e libertà.


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