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  • Emanuele Paccher

Riforma Fornero e Quota 100: due riforme a confronto

Il 31 dicembre termina – salvo eventuali proroghe – la cosiddetta Quota 100. Cosa comporta questo provvedimento? Come e quando andranno in pensione gli italiani?

Quota 100 è stata introdotta come cavallo di battaglia della componente leghista dell’allora governo Conte I. Il “governo giallo-verde” puntava principalmente al superamento della riforma Fornero, che imponeva dal 2011 un sistema pensionistico basato sul calcolo contributivo. Questo sistema veniva inoltre estenso a tutti i lavoratori, anche a chi stava già costruendo la propria pensione con il più generoso sistema retributivo.


È importante però sottolineare una cosa: Quota 100 non ha mai effettivamente cancellato la legge Fornero, la quale si è sempre applicata alla maggioranza dei lavoratori che ad oggi sono andati in pensione. Ciò è confermato dai dati raccolti nei primi 20 mesi dall’avvio di Quota 100: le domande accolte sono state soltanto 202 mila. Dati comunque importanti, ma che attestano l'adesione a Quota 100 di solo un terzo dei cittadini inizialmente prospettati.


Per parlare della riforma Fornero, con tutti i suoi pro e contro, bisogna considerarne il contesto. Si tratta infatti in un intervento strutturale importante, che teneva conto dell’innalzamento dell’aspettativa di vita in un momento storico in cui le finanze dello Stato versavano in condizioni critiche. Ecco il perché del conseguente innalzamento dell’età pensionistica: minimo 20 anni di contribuzione e 66 anni di età nel pubblico impiego per donne e uomini; sempre 66 anni per gli uomini nel settore privato e 62 anni per le donne in tale settore, con un aumento graduale a 66 anni e 3 mesi nel 2018. Invece, 41 anni e 3 mesi di lavoro per le donne e 42 anni e 3 mesi per gli uomini, era quanto previsto per la “pensione anticipata”.


Quota 100, introdotta dal 2019, mirava invece a dare l’opportunità di ritirarsi dal lavoro a 62 anni di età e con 38 anni di contributi senza alcuna penalizzazione. La campagna mediatica nata attorno alla riforma ha puntato molto sulla questione dell'assenza di "penalità", giocando sull'ambiguità del termine. Ovviamente preferire l'opzione proposta da Quota 100, e quindi un'uscita anticipata dal mondo del lavoro, comportava un abbassamento dell'importo finale corrisposto al cittadino. Ma questo è appunto quanto previsto dal sistema contributivo e di fatto non può in nessun caso essere considerato una penalità.


Altro fine, ipotizzato e auspicato dai promotori della riforma, era quello di diminuire la disoccupazione giovanile, grazie al fatto che con Quota 100 più lavoratori anziani sarebbero andati prima in pensione. Non ci si è più di tanto lasciati intimorire dell’impatto economico della manovra, arrivata a prevedere una spesa di 2,6 miliardi nel 2019 e 5,9 miliardi nel 2020.


Davvero mandare in pensione i soggetti con età più avanzata crea occupazione per i giovani?

Molti aspetti ci inducono a rispondere negativamente. Ad oggi il tasso di sostituzione è del 40%, ossia ogni 100 uscite anticipate con quota 100 ci sono 40 assunzioni, dato di molto inferiore alle aspettative dei promotori della riforma. Ma quali ne sono le cause?


Innanzitutto l’idea che vi possa essere un tasso di sostituzione del 100% muove dall’ipotesi che la forza lavoro sia fissa, ossia che i posti di lavoro siano dati in misura immutabile nel tempo, e che pertanto se si liberano dei posti di lavoro grazie al pensionamento anticipato tali posti verranno riempiti dai giovani. Ma il mercato del lavoro non funziona in modo così semplicistico. L’evidenza empirica ci mostra che i Paesi in cui vi è una più alta percentuale di lavoratori senior al lavoro sono anche gli stessi più virtuosi per il lavoro dei giovani. Ne sono un esempio Svezia, Germania e Danimarca.


Dopodiché, è difficile pensare che il lavoratore giovane e anziano siano equivalenti per le imprese, date le loro diverse competenze, esperienze, capacità.


Poi vi sono gli aspetti patologici: nella pubblica amministrazione, dati i vincoli di bilancio e di legislazione, l’uscita di un funzionario può comportare semplicemente un maggior carico di lavoro per i colleghi, con la conseguenza di un peggioramento dell’efficienza. Ed è qui giusto registrare come la platea di pensionati con Quota 100 provenga per buona parte dalla pubblica amministrazione.


Michele Tiraboschi, ordinario di diritto del lavoro all’università di Modena e Reggio Emilia, è dell’idea che occorra aumentare il tasso di occupazione per tutte le fasce di età, poiché più gente lavora, più si crea ricchezza e più risorse ed opportunità ci sono anche per i giovani.


Alla luce della situazione attuale, con la scadenza di quota 100 a fine anno, è necessaria una nuova riforma. Quali sono le opzioni sul tavolo?

Una prima opzione potrebbe essere non fare nulla, con il conseguente ritorno integrale alla riforma Fornero. Al lato opposto, si potrebbe optare per una proroga di Quota 100.


Un’altra opzione sul tavolo è quella dell’Ape sociale, che consente un pensionamento anticipato in condizioni di disagio e di difficoltà personale o familiare. Non è poi da escludere che vi sia il ripristino dell’Ape volontaria, in modo da permettere un pensionamento anticipato anche a coloro che non versino in condizioni di difficoltà. Ancora, si ipotizza di introdurre quota 102, permettendo il pensionamento a 64 anni di età e 38 di contribuzione.


Queste insomma sono alcune delle opzioni sul tavolo: sarà compito della politica trovare la scelta migliore, con la speranza che il legislatore non abbia uno sguardo miope, che non si fermi soltanto agli slogan elettorali. E qui tornano in mente le parole di De Gasperi: “Un politico guarda alle prossime elezioni. Uno statista guarda alla prossima generazione”.

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