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  • Valentina Zanatta

Siria: la geopolitica degli aiuti umanitari

Un terribile terremoto ha colpito Turchia e Siria lo scorso 6 febbraio. Oltre ad aver causato migliaia di vittime e aver aggravato una situazione già critica, ha portato allo scoperto una serie di difficoltà nella gestione degli aiuti umanitari, soprattutto per quanto riguarda la Siria.

Nemmeno gli aiuti umanitari riescono a scavalcare i confini politici e ideologici tra gli Stati. Daniele Rocchi, che scrive per l’agenzia di stampa SIR, la definisce “la guerra degli aiuti”.

Per comprendere il problema bisogna partire dal presupposto che il Paese di cui stiamo parlando, la Siria, è un Paese distrutto internamente da 12 anni di guerra civile e frammentato geograficamente.


Nel 2011 iniziarono le prime manifestazioni pubbliche e pacifiche in tutto il Paese contro il governo. Le proteste facevano parte del fenomeno più ampio denominato “primavera araba”, che portò, in alcuni casi, alla destituzione di capi di governo autoritari che erano al potere da decenni, come in Tunisia ed Egitto, e in altri, come in Yemen, Libia e Siria, creò le condizioni per l’inizio di guerre civili che non si sono ancora risolte.


In Siria le proteste del 2011 hanno l'obiettivo di spingere alle dimissioni del presidente Bashar al-Assad ed eliminare la struttura istituzionale monopartitica del Partito Ba'th.


Il presidente Assad, incapace di venire incontro alle richieste riformatrici della popolazione, scatena una reazione violenta nei confronti dei manifestanti. Nel Paese si crea una coalizione eterogenea di milizie armate definite “ribelli” che non riconosce più come legittimo il regime di Assad. Lo scontro con le forze governative a a supporto del governo di Assad sfocia in una sanguinosa guerra civile e la formazione di milizie sotto diverse influenze, anche esterne al Paese, porta ad una frammentazione geografica vera e propria del Paese stesso.


A nord ovest la Siria è controllata dai gruppi dell’opposizione di Assad, a sua volta suddivisi in tre zone di diversa influenza, tra cui l’enclave di Iblib, guidato da un gruppo militante filo-turco.

Il nord est è sotto il controllo di un’amministrazione autonoma a guida curda, mentre il sud è controllato dal regime di Assad, sostenuto da Russia e da gruppi armati filo-iraniani.


Non è difficile immaginare come gestire la distribuzione degli aiuti in questo contesto diventa davvero complesso: a chi si mandano gli aiuti e attraverso cosa? Con chi avviene il dialogo?


Lunedì 6 febbraio un terremoto di magnitudine 7.8 colpisce le regioni al confine fra Turchia e Siria. L’impatto è così devastante che il suolo dell'Anatolia si sposta di 3 metri e una delle due faglie che attraversano la Turchia si divarica. Il bilancio delle vittime supera quota 50.000 e sono a centinaia di migliaia i feriti e gli sfollati che perdono tutto. Chi è rimasto, chi è sopravvissuto a questo terribile disastro ha bisogno di aiuto. Le prime ore sono fondamentali.

Passa il tempo, però, e in Siria è davvero difficile far arrivare gli aiuti.


L’accesso a quartieri e villaggi è bloccato perché intere strade e infrastrutture sono andate distrutte. Le temperature sono scese sotto lo zero. Vi sono più di 13,5 milioni di persone bisognose di assistenza umanitaria, con ospedali distrutti o con urgente bisogno di personale, acqua e costante rifornimento di corrente elettrica.


In questa situazione di estrema emergenza il panorama è davvero complesso.


Da un lato le sanzioni dei Paesi dell’UE imposte al Governo di Assad, che da anni ormai si ritrova isolato dal resto della comunità internazionale, rendono difficile intrattenere rapporti diplomatici.


Dall’altra l’unico valico di frontiera autorizzato per il passaggio dei convogli umanitari verso le zone colpite dal terremoto è bloccato dai detriti e dall’altra ancora il governo di Assad sembra strumentalizzare la politica degli aiuti umanitari. Il presidente siriano pretende infatti che tutti gli aiuti convergano prima a Damasco, dietro la promessa che saranno distribuiti anche alle zone controllate dai ribelli, quelle maggiormente colpite dalla calamità.


Il primo campanello d’allarme è stato lanciato da Filippo Agostino, referente per la Siria della Fondazione Avsi: «Le Nazioni Unite hanno dichiarato che un convoglio umanitario partito da Damasco è stato bloccato dai ribelli» denuncia, commentando una mancata consegna di aiuti nella città di Idlib.


Problemi anche da parte delle forze governative del presidente Assad, come denunciato dall’ong italiana Un Ponte Per. Un convoglio di aiuti della Mezzaluna Rossa Curda diretto nei villaggi più colpiti dalle scosse è stato bloccato sabato 11 febbraio dalle forze governative, che pretendono la consegna di tutti gli aiuti per poter passare il check-point.

«Si tratta di un livello di strumentalizzazione politica degli aiuti assolutamente inaccettabile» dichiara Un Ponte Per «che tra l’altro apre le porte alla corruzione e priva gli umanitari della possibilità di controllare i destinatari degli aiuti, rendendo conto ai donatori».

L’Italia è il primo Paese europeo a fornire aiuti. L’11 febbraio, a ben 5 giorni di distanza dalla catastrofe, un convoglio di aiuti privati arriva in Siria attraverso il Libano. Il fatto che i due aerei militari italiani siano atterrati a Beirut e non a Damasco ha un significato non solo logistico, ma anche politico. Lo scalo di Aleppo risulta infatti parzialmente danneggiato e quello di Damasco si trova molto distante dalle zone colpite dalla calamità; sul piano politico questo ha evitato contatti diretti tra Roma e Damasco.


Finalmente il 14 febbraio il segretario generale dell'ONU, António Guterres, comunica l’apertura di altri due valichi di frontiera al confine con la Turchia per permettere il passaggio di più convogli umanitari. È già passata più di una settimana dalla catastrofe, però, e il numero delle vittime aumenta di giorno in giorno.


Ora sembra che qualcosa si stia smuovendo: l’UE ha contribuito con 5,5 milioni di euro e il 23 febbraio ha deciso di ridurre le restrizioni e di facilitare la richiesta delle ong alle autorità nazionali per intervenire.


Sembra incredibile però, che di fronte ad una catastrofe come quella che ha colpito Turchia e Siria, questi provvedimenti ci abbiano messo così tanto ad arrivare. Sembra incredibile come l’azione umanitaria abbia potuto essere rallentata da schemi politici e ideologici, e che una tragedia come questa sia potuta essere oggetto di strumentalizzazione politica da parte del regime di Assad.

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