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  • Immagine del redattoreMatteo Gibellini

Elezioni politiche in Italia, dove la cultura perde valore

“I mali della città finiranno quando il suo governo verrà assunto dai filosofi”, così scriveva Platone. E non aveva tutti i torti. Se si pensa ai mali della recente campagna elettorale.


La mente ci riporta alle fantasiose castronerie acchiappa consensi dei politici italiani: i “veri assi del Made in Italy”. In un mondo lontano dai tempi in cui grandi filosofi illuministi dispensavano il loro sapere per un agire politico più etico.

Oggi, politica e cultura hanno preso strade diverse. Intellettuali, cultori e filosofi si sono “auto-esclusi” dal dibattito pubblico. Anche se di dibattito se n’è visto poco. E l’andamento della campagna elettorale è probabilmente l’effetto di questa involuzione culturale.

Dai comizi meramente costruiti per fini propagandistici, la parola “cultura” è rimbalzata poco sulle bocche dei politici. Si rivolgono alla pancia della gente in una ricerca ostinata del consenso, usando toni poco consoni alla dialettica politica. Sono la dimostrazione che di cultura non se ne vuole proprio parlare. O peggio ancora non ce se ne occupa.


La verità è che non è una priorità per le nostre istituzioni. E quando gli gira male la cultura la sa anche demonizzare. È un fatto di ostentata ignoranza.


Un esempio eclatante è emerso a pochi giorni dalle elezioni. Il cantante Luciano Ligabue e l’attore Stefano Accorsi con la società produttrice Fandango hanno fatto sapere di aver diffidato formalmente la Lega di Matteo Salvini per aver utilizzato un estratto audio di Radiofreccia nel video elettorale senza chiederne l’autorizzazione. E non è la prima volta che succede. È l’ennesimo sfregio della legge sul diritto d’autore.

Un’artista italiano sa cosa significa dover tutelare la propria opera dinanzi a queste azioni irresponsabili. È consapevole. Non lo è l’attuale classe politica. È un fatto di lucidità? Forse. C’è da dire che di politici se ne trovano di più sui social che in qualche circolo culturale. Inghiottiti dal “tunnel” tecnologico. E con il digitale, la velocità uccide il pensiero (e la lucidità ovviamente).

Chi cerca voti mostrando dei meloni per rimando al proprio cognome, chi lancia slogan fuorvianti, chi trova un pretesto per dividere il Paese in buoni e cattivi, chi si riempie la bocca con la parola cultura per spacciarsi intellettuale.

E non è un problema solo di destra. Se quest’ultima usa un registro grezzo ormai noto a tutti, la sinistra restringe i confini culturali. Perché la cultura diventa solo prodotto ad uso e consumo del partito, quindi ghettizzata per un certo verso. Pecca di ipocrisia. E la retorica resta retorica.


Fonte: Corriere della Sera

A pagarne le conseguenze sono i cittadini. L’assenza di un dibattito culturale può aver influito il risultato elettorale dello scorso 25 settembre. Basti notare l’elevato astensionismo e l’incertezza che dilaga ancora tra i giovani. Il 40% si è astenuto.


È chiaro che esista una proporzione diretta. Se la politica desse più valore alla cultura avremmo un dibattito politico di un certo livello e cambierebbe l’atteggiamento dei cittadini che sono chiamati alle urne. L’interesse culturale influisce sul linguaggio politico e sulla partecipazione del popolo. Di conseguenza, determina anche la credibilità istituzionale di un Paese.


I dati confermano questo disinteresse. Siamo innanzitutto il Paese che detiene la maggior quota di patrimonio culturale nel mondo. Ma siamo anche il Paese che lo sa sprecare meglio.

Il sito online openpolis ha osservato che, sulla base della rilevazione fatta da Eurostat il 19 luglio 2022, l’Italia ricopre in Europa il quart’ultimo posto per lo 0,3% del Pil speso per la cultura. Il dato sorprendente è il primo posto occupato dall’Ungheria di Orban con l’1,3% del Pil speso per i servizi culturali, seguita dalle Repubbliche Baltiche. Ma con il premier ungherese probabilmente si parla più di cultura a servizio della propaganda.


Francia, Spagna e Germania spendono molto di più rispetto all’Italia. Altro dato significativo è il numero degli occupati nel settore. L’Italia si aggira attorno al 3,5% in linea con la media europea. Ma ci sono tre paesi che superano il 5%: Estonia (5,2%), Slovenia (5,2%) e Finlandia (5,1%).


È l’ennesima prova che fare l’artista nel nostro Paese significa prendere una scelta difficile. Come minimo si è costretti ad avere almeno due occupazioni lavorative per garantirsi un minimo di stabilità economica. Se non si ricopre una posizione di “privilegio” come la raccomandazione.

La figura del professionista culturale viene dunque avvilita in Italia dall’inettitudine politica. Verrebbe da dire che tale professione tenderà ad estinguersi, di questo passo. Si spiega l’enorme flusso di giovani che emigra all’estero. Dove le cose funzionano meglio da quel punto di vista.

E quando non si valorizza l’arte e l’artista, la società muore. E difficilmente si può sperare in una classe politica rispettabile e quindi credibile.


Ritorno al passato? Non sicuramente al ventennio fascista o al Medioevo, ma ripensare ad un nuovo Illuminismo dove ragione e tolleranza prevalgono non sarebbe mica male. In effetti, la politica ha bisogno di nuovi illuminati (che non ha). Perché l’unica ancora di salvezza dei poltici resta quella: la cultura.

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