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  • Sara Soliman

Neutralità o discriminazione: la sentenza della CGUE sul velo

La Corte europea di giustizia si è recentemente pronunciata sul ricorso di due cittadine musulmane (impiegate in Germania) in causa con i propri datori di lavoro. Al centro della disputa legale l’abbigliamento delle due lavoratrici, giudicato poco affine alla politica di neutralità perseguita dalle aziende.

La vicenda riguarda due lavoratrici impiegate presso Wabe eV l'una, e presso Mh Muller Handels GmbH l'altra, entrambe società di diritto tedesco. Le due donne hanno riscontrato situazioni analoghe circa il divieto di indossare il velo islamico sul loro rispettivo luogo di lavoro.


La Corte di giustizia Ue ha stabilito che la volontà di un datore di lavoro di promuovere un clima di neutralità politica, filosofica o religiosa nei rapporti con i clienti, può costituire una finalità legittima per vietare l’utilizzo del velo islamico (e di qualsiasi altro simbolo religioso).


Una norma interna di un’impresa “non costituisce una discriminazione diretta” laddove questa “riguardi indifferentemente qualsiasi manifestazione di tali convinzioni e tratti in maniera identica tutti i dipendenti dell’impresa, imponendo loro, in maniera generale ed indiscriminata, una neutralità di abbigliamento che osta al fatto di indossare tali segni”, ha sentenziato la CGUE.


La Corte precisa, però, che "tale giustificazione deve rispondere a un’esigenza reale del datore di lavoro": esigenza di difendere, ad esempio, i diritti e le aspettative dei clienti. Questo vale anche per il desiderio dei genitori di far educare i propri figli da persone che non manifestino la loro religione o le loro convinzioni personali quando sono a contatto con i bambini.

La decisione ha fatto discutere e riacceso animi su temi mai risolti quali il crocifisso nelle aule scolastiche o la questione del velo, appunto. La sentenza della Corte fa seguito anche alle recenti proposte di legge approvate in Francia che vogliono negare la libertà delle donne di indossare il Hijab o velo islamico.


La vicepresidente dell’UCOII, l’Unione delle comunità islamiche d’Italia, Nadia Bouzekri, ha affermato che il divieto di indossare il velo “è un altro passo verso l’istituzionalizzazione dell’islamofobia”. “Un atto che questa volta non si mostra sotto forma di riconoscibili manifestazioni di chi diffonde odio da dietro una tastiera, ma con il volto delle istituzioni comunitarie”, ha aggiunto.


La questione rientra nel più ampio dibattito sul multiculturalismo e sulla necessità, di alcuni, di promuovere politiche più assimilazioniste che non minino il secolarismo.


Ma cerchiamo di capire, innanzitutto, perché le donne musulmane indossano il velo.


Non esiste una ragione univoca. Alcune donne lo indossano come atto di profonda devozione ad Allah. In questo modo, scelgono di essere praticanti e adempiono ad un precetto religioso. Per altre è un simbolo volto a esprimere visibilmente la loro appartenenza religiosa. Altre lo indossano come espressione della loro identità culturale o per abitudine. In altri casi ancora, alcune donne utilizzano il Hijab per contrastare il discorso femminista che le vede come oppresse o sottomesse. Uno dei significati profondi che viene attribuito al velo è quello di protezione dall'essere oggetto di desiderio maschile e di sessualizzazione del corpo femminile.


Vi sono poi donne che non percepiscono il Hijab come pratica obbligatoria. Ritengono che, sebbene in passato il velo consentisse di impegnarsi nella società senza attirare l'attenzione, nella società occidentale contemporanea comporti invece più visibilità per le donne e sia quindi in contraddizione con il suo originale scopo.


In ogni caso, la maggior parte delle donne musulmane si trova d'accordo sul fatto che sia una scelta femminile se indossarlo o meno.

A seconda delle motivazioni o del contesto in cui una donna nasce o cresce, vi sono poi vari modi di indossare il velo e di esprimere la propria appartenenza religiosa. Spesso è possibile distinguere tra le diverse culture islamiche solo osservando le variazioni nello stile del velo.


Quello più caratteristico e teologicamente indicato è il Hijab, che copre capelli e collo lasciando scoperto il viso. Esiste inoltre il Shayla, un lungo scialle di forma rettangolare che viene avvolto liberamente attorno alla testa e piegato o fissato alle spalle.


Troviamo poi il Niqab, che copre anche il viso della donna lasciando scoperti solo gli occhi, e il Burqa, simile al Niqab ma che presenta una retina sugli occhi, tipicamente afghano. Esistono infine il Khimar e lo Chador, lunghi scialli simili a mantelli che coprono la testa, il collo e le spalle, l'uno, e l'intero corpo l'altro. Il secondo è spesso indossato dalle donne iraniane.


Negli ultimi anni, in particolare in Occidente, si è sviluppato un nuovo modo di portare il velo, una forma più "moderna". Quest'ultimo viene legato all'indietro, come un turbante, per motivi estetici o per comodità. Questo accade quando scelte religiose si uniscono a culture, abitudini e ambienti differenti.


Sostenere che le donne musulmane non comprendano gli effetti discriminatori del velo e che siano semplicemente succubi di una cultura retrograda ha l’unico effetto di vittimizzarle, anche quando scelgono di indossare il Hijab per propria volontà.


Tale sentenza introduce un principio che potrebbe legittimare orientamenti discriminatori aumentando differenziazioni e tensioni fra le parti. La diversità, in questo modo, rischia di essere standardizzata, e non accettata.


Soltanto comprendendo il significato identitario che il velo islamico ha per le donne musulmane - e non dando per assodato che sia un’imposizione maschile o barbara - si potrà instaurare un dialogo alla pari in cui verranno difesi i diritti della donna.

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