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Giovanni Moccagatta

Un filo d’inchiostro. Intervista ad Andrea Ciresola

In un articolo del 24 Gennaio, Elisa Egidio raccontava la nascita di Digiti. Rivista manoscritta dell’Università di Trento. Per esplorare ulteriormente il valore e le potenzialità della scrittura a mano, siamo andati a intervistare Andrea Ciresola, che ne ha fatto largo uso nelle sue opere. Poliedrico artista, scrittore, restauratore e pittore, risiede in Veneto e spesso visita il Trentino.

Che significato ha per Lei la scrittura a mano? La reputa, almeno sotto qualche aspetto, irrinunciabile? Quale valore ha aggiunto ai suoi romanzi?


«Una trentina d’anni fa scrivevo solo a mano. Si battevano certo a macchina le redazioni dei lavori, ma ad ogni errore si doveva applicare il bianchetto, impiegando così un tempo lunghissimo. Poi scoprii il Macintosh: anziché lavorare tutta la mattina alle redazioni, in un’ora potevo fare tutto perfettamente e senza errori.


Mi dissi: “Pensa quanto tempo mi fa risparmiare!”.  In realtà, in questi trent’anni, ho capito quanta vita mi avesse mangiato il computer, poiché continuavo a usarlo anche in quei momenti che si erano liberati - come in una sorta di assuefazione. Ecco una prima riflessione.»


«La prima stesura era comunque sempre a mano e, per inviarla all'editore, la ripassavo al computer. Questo passaggio da una parte all’altra consentiva una completa e profonda revisione: si notavano ripetizioni, cose che non piacevano, e si faceva una riflessione ulteriore. Inoltre, ammetto che mi piace molto la mia calligrafia.


In quanto pittore, mi interessa l’aspetto estetico, ho la tendenza a visionare, a creare un immaginario ogni volta che scrivo. Ho messo insieme i due aspetti nei miei “racconti fatti a mano”, piccole installazioni con un dipinto e un racconto scritto.»


«Ho poi iniziato a riscrivere i miei romanzi completamente a mano [con il giallo Gli angoli dei Numeri, edito da People, 2022, N.d.R.] maturando così una consapevolezza davvero irrinunciabile. Mi sono reso conto che, a libro già stampato e pubblicato, averlo visivamente di fronte, scritto a mano, mi portava a elaborare spunti di trama mancati di cui al computer non mi ero accorto.

Se dopo la stesura iniziale e l’editing avessi riscritto a mano il libro prima di pubblicarlo, avrei visto nuove possibilità di trama davvero interessanti.

Sono caduto in questo meccanismo anche col successivo. Con il libro attualmente in editing ho invece chiesto alla casa editrice che aspettino a stamparlo, così che possa riscriverlo a mano. C’è dunque questo valore essenziale dal punto di vista dello scrittore.»

«Credo anche che la scrittura a mano abbia la capacità ipnotica di calmare l’ansia di questi tempi così difficili, e sappia mettere tutte le cose in una giusta prospettiva. Un paio d’ore di scrittura a mano mi donano una notte di sonno serena. Se guardo invece la televisione, le notizie, non dormo… La psiche lavora tantissimo, subentra il rapporto cervello-occhio-mano, che da un punto di vista fisiologico e biologico è un rapporto altrettanto irrinunciabile. Non solo per gli scrittori, per ogni uomo.»


La scrittura a mano è un ulteriore strumento narrativo? Aggiunge una dimensione in più all’opera?


«C’è innanzitutto un aspetto spesso trascurato. Scrivendo al computer con un carattere piuttosto che con un altro si scrivono cose diverse. Si hanno approcci diversi: un carattere stretto ti induce a scrivere di più e più velocemente, uno molto largo frammenta il discorso… Tant’è vero che ingegneri e studiosi hanno fatto nascere un carattere apposta per gli scrittori, il Garamond, che nella versione Simoncini divenne lo standard per editori quali Rizzoli e Feltrinelli. Le aste, le curve, gli spazi, portano a leggere in un certo modo.


Anche lo strumento tecnologico del computer deve tentare di avvicinarsi alla scrittura a mano. Si rischia altrimenti di scrivere le cose come non le avresti pensate. È come quando si dice che le parole determinano il pensiero: il modo di scrivere influenza il modo di pensare. È condizionante, e allora voglio farmi condizionare dalla mano, che è più nostra.»


Diremo allora che la tipografia, come la tecnica in genere, “non è neutra”. Di conseguenza, la scrittura a mano è il modo di mantenersi quanto più autenticamente a contatto con i propri pensieri?


«Sì. Direi in più che proprio questa consapevolezza ti mette nella condizione di fare il contrario. Non voglio essere troppo a contatto intimamente con me stesso, voglio estraniarmi, essere altro, come per esempio quando devo scrivere il personaggio malvagio, e allora scrivo in un altro carattere.»


Passiamo un momento a Lei. Qual è il suo legame con il territorio trentino, specialmente dal punto di vista culturale?


«Il mio territorio d’origine, il Veneto, è molto legato al risultato, ad arrivare, ad avere. Ritengo il Trentino più legato all’essere. Penso per esempio alle bande e ai concerti nei paesi. Da un punto di vista culturale, non è un caso siano sorti musei di un certo tipo, il Muse, il Mart. Mi attrae anche il rapporto fra le persone, ma attenzione, questo è un po’ il limite, non nei confronti di coloro che non sono trentini, verso i quali c’è una certa diffidenza e chiusura. Mi riferisco a quello che succede alla sera nei paesini, nelle contrade, ai cori, e ai canti.  Ci sono anche da noi, ma sono molto più funzionali a una festa godereccia. Qui c’è qualcosa di più profondo, che non saprei nemmeno spiegare, ma percepisco. Magari sbaglio.


Se poi “il paesaggio è il più grande regalo che Dio ha fatto agli artisti”, il Trentino ti fa stupire di ciò che effettivamente la natura ancora ci dà. Da Brescia sino a Venezia è difficile trovare un pezzettino di campo libero. In Trentino c’è una certa attenzione al territorio, che sottende un’idea più conservativa.»


A proposito della realtà locale, ha per caso sentito parlare della rivista manoscritta Digiti?


«Non ne ho sentito parlare, ma mi fa effetto sapere che esiste un progetto simile. Quando lavoro, lavoro solo, molte ore isolato. Per me è importante. Nonostante questo mio lavoro vada avanti da molti anni, solo recentemente ho scoperto l’esistenza di una giornata mondiale della scrittura a mano [23 Gennaio, N.d.R.], o che ci sono premi letterari per la scrittura a mano. C’è un mondo al di fuori di me che non conoscevo, come non conoscevo questa cosa. La trovo interessante, è evidente che andrò a vederla e mi terrò collegato.»


Prima di lasciarci, secondo Lei siamo destinati inesorabilmente ad abbandonare la scrittura a mano? In favore delle tastiere, o magari neanche più quelle, se consideriamo la diffusione di note e messaggi vocali, sistemi speech-to-text sempre più precisi… Evoluzione o deterioramento del pensiero?


«Teniamo presente che noi partiamo esseri orali. Dal dito che indica la cosa, al nome dato con la nostra voce. Arriviamo a un apice di diffusione di scrittura con Gutenberg, e in poche centinaia di anni decidiamo che è finita? Credo francamente di no. Non perché abbia un’avversione per la tecnologia, che anzi amo tantissimo (sono stato uno dei primi della mia zona a creare un sito internet). Un tempo si diceva che gli ebook avrebbero sostituito i libri di carta, e invece il successo della carta oggi è clamoroso – un successo che secondo me proprio gli ebook hanno contribuito a generare… Sono abbastanza convinto che la scrittura sopravviverà. E secondo me per un aspetto: perché attiene al bello. Il bello non è una possibilità dell’uomo, è una necessità.


Effettivamente il vocabolario comune si è ridotto, parallelamente all’utilizzo prima del computer, poi dei telefonini e degli smartphone, e questo porta a un impoverimento del pensiero. Del resto, siamo in questa fase di “pensiero debole” da molto tempo. Ma le persone che utilizzeranno altri strumenti, per i quali il pensiero non sarà debole ma sarà forte, a un certo momento prenderanno il sopravvento. Nei dominii e nelle guerre entra in gioco anche l’intelligenza, la superiorità culturale. C’è chi avrà poche parole, che tenterà questa sopraffazione con la forza, e chi con la superiorità del pensiero. Io ritengo che questa sia superiore, anche solo per elaborare delle strategie. Il cavallo di Troia non è stato inventato da chi era forte fisicamente.


Un’ultima nota sulla scrittura. Molte persone mi dicono “pensa, io non sono più capace di scrivere a mano!”. Significa aver ridotto una possibilità persino a livello neurologico, fa un po’ effetto. Come se decidessimo, non so bene per quale motivo, di abbandonare il corpo, come se spaventasse, per il dolore e la fatica. La scrittura a mano mostra questo nostro lato, che sì, è degenerativo.»

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